MILANO – Quante volte, sui banchi di scuola, è capitato di dover scrivere un elaborato sulla pena di morte. Le argomentazioni partivano di solito dal pensiero illuministico (da quella “inutile prodigalità di supplicii” come la definisce nel pamphlet “Dei delitti e delle pene” Cesare Beccaria nel 1764); esaminavano quindi i dati di Amnesty International, di Nessuno tocchi Caino o di qualsiasi altra associazione; riportavano la voce in difesa della vita del Papa coevo dei tempi e si chiudevano con le considerazioni sull’inutilità e barbarie di tale pena, nonché sulla infondatezza della tesi che essa potesse costituire un deterrente al crimine.
Si caldeggiava, per concludere, la necessità della prevenzione, dell’educazione e dell’eliminazione di ogni gap sociale, auspicando un sistema giuridico che garantisse la certezza e la proporzionalità della pena. Verrebbe da commentare “tutto come da copione”, dal momento che di fronte agli eventi attuali si potrebbero rispolverare i vecchi elaborati, con l’aggiunta soltanto di ulteriori aggravanti. “Esortiamo le autorità iraniane a smettere di usare la pena di morte come strumento per reprimere le proteste e ribadiamo il nostro appello a rilasciare immediatamente tutti i manifestanti”: queste le parole dell’ONU di fronte al pugno di ferro dell’Iran contro coloro che pacificamente sono scesi in piazza per protestare contro l’uccisione di Mahsa Amini (di etnia curda) e per chiedere il rispetto dei loro diritti.
Dalla morte della giovane donna, deceduta il 16 settembre in circostanze sospette mentre si trovava in custodia delle guardie di sicurezza, il numero delle vittime, tra cui decine di minorenni, e degli arresti è in continua, drammatica crescita; per non parlare di tutti coloro che sono scomparsi, senza lasciare alcuna traccia. Nelle ultime settimane sono inoltre iniziati i processi-farsa col pieno sostegno della quasi unanimità dei membri del parlamento iraniano, che hanno formalmente chiesto alla magistratura provvedimenti di estrema severità per porre fine ai disordini.
Secondo l’ONU, 1.000 processi sono stati avviati e si registrano già sei condanne a morte. Tra i manifestanti arrestati, che rischiano la pena di morte, anche il rapper Toomaj Salehi, accusato di “corruzione sulla Terra” (ovvero di aver violato le leggi della Sharia) e di tutta una lunga serie di reati politici, la cui falsa confessione sarà sicuramente estorta dall’orrore dei pestaggi, torture e stupri delle carceri iraniane. La polizia non è riuscita soffocare la sua voce e riecheggiano vive sui social le note di libertà in “Tana del topo”, con cui invita ogni mullah a sparire nel suo fetido buco di topo “trova un buco di topo per nasconderti” o in “la forza bruta non avrà la meglio”. Di lui, i suoi familiari non hanno notizie da diversi giorni: si teme che la condanna possa essere stata eseguita, senza che i media locali ne abbiano dato notizia.
Anche a Fahimeh Karimi, allenatrice di pallavolo e madre di tre figli, la magistratura iraniana ha comminato la condanna a morte lo scorso 2 dicembre con l’accusa di essere una leader delle manifestazioni e di aver sferrato calci a un paramilitare Basiji. A tre mesi dal brutale assassinio di Masha Amini, la carneficina di regime non riesce a fermare la protesta a mani nude delle donne che continuano a tagliare ciocche dei loro capelli e bruciare hijab, al grido di “Zan, Zendegi, Azadi” (Donna, Vita, Libertà); è, pertanto, ipotizzabile che la curva delle condanne capitali faccia registrare un preoccupante aumento. In Iran i dati sulla pena di morte sono già sconfortanti, la maggior parte delle donne condannate è costituita da spose bambine che hanno ucciso i loro aguzzini e che avevano meno di 18 anni al momento del reato ascritto, altre avevano commesso un omicidio per legittima difesa contro uno stupro o erano donne “aroose-khoon-bas”, ossia mogli offerte in cambio dell’estinzione di un qualsivoglia debito.
Nelle strade di tutto l’Iran in rivolta, le dimostranti vengono arrestate con l’accusa di “moharebeh” (inimicizia contro Dio) e se riescono a sopravvivere alla tortura, la cui inutile crudeltà era stata già stigmatizzata da Beccaria ed altri illustri Illuministi, ammettono la responsabilità di reati loro falsamente imputati. Seguono poi processi iniqui in assenza di un sistema giudiziario trasparente ed indipendente; ma per le donne la discriminazione continua anche post mortem, perché si stima che i media filogovernativi iraniani riportino circa il 30% delle esecuzioni effettuate, mentre del restante 70% non viene fatta parola. Quelle poche volte in cui la notizia di un’esecuzione femminile viene diffusa, le donne sono rappresentate col solito abusato clichè di madri malvagie e snaturate, di persone di scarsa moralità o di streghe.
Amnesty International nel suo ultimo rapporto sulla pena di morte ha evidenziato che nel 2021, dopo le restrizioni della pandemia, c’è stato un preoccupante aumento delle esecuzioni ed ha rilevato che in alcuni Stati la pena capitale è stata impiegata come strumento di repressione contro le minoranze e i manifestanti. L’elenco dei paesi in cui vige tuttora la pena di morte è tragicamente lungo, pur mancando i dati degli Stati più intolleranti che non lasciano trapelare alcuna informazione sulle numerose esecuzioni degli oppositori.
Le argomentazioni, come nei vecchi elaborati, si chiudono ancora una volta con la voce in difesa della vita del Pontefice, ora di Papa Francesco che ha rivisto il Catechismo della Chiesa Cattolica (2018) ed affermato: “La Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona” e con l’auspicio di Agnès Callamard (2021), segretaria generale di Amnesty International, che ”un mondo senza omicidi di Stato sia immaginabile” e che si continui “a perseguire questo obiettivo, denunciando l’intrinseca arbitrarietà, discriminazione e crudeltà di questa sanzione fino a quando anche una sola persona continuerà a subirla”.
Adele Reale
Nell’immagine di copertina, il manifesto di Amnesty International contro la pena di morte
Lascia un commento