/, Sezione 5/In difesa di Gaio Flaminio demonizzato da senatori e nobili

In difesa di Gaio Flaminio demonizzato da senatori e nobili

di | 2019-08-29T22:30:48+02:00 1-9-2019 6:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

PERUGIA – Gaio Flaminio Nepote (265 aC-217 aC) non ha goduto di una buona stampa: lo hanno descritto come empio, stratega di basso rango, prima causa della sconfitta dei Romani al Trasimeno. Critiche malevole frutto dell’invidia dei patrizi e dei senatori (gli “ottimates”), che vedevano in lui un “homo novus”, pericoloso – per loro – alfiere dei “populares”. Della plebe, insomma. Flaminio ricoprì, infatti, nel 232, la potestà tribunizia (concedendo a famiglie di agricoltori caduti in miseria, terreni a sud di Rimini; il tutto senza consultare il Senato, veementemente contrario), quindi divenne, nel 227, governatore della Sicilia e nel 223 salì al consolato per la prima volta (suo collega Publio Furio Filo). Nel 222 celebrò il trionfo per la vittoria sui Galli Insubri. Nel 220 ottenne la carica di censore e nel 217 assunse di nuovo il consolato (col collega Gneo Servilio Gemino).

Il console Gaio Flaminio, sconfitto sul Trasimeno

L’empietà gli veniva addebitata, sempre dagli aristocratici, in quanto in una circostanza non avrebbe consultato gli dei, secondo la tradizione, prima di una delicata decisione. Il suo, comunque, risulta un “cursus honorum” di tutto rispetto. Come militare aveva combattuto e annientato i Galli Insubri ed rivestito il ruolo, delicato ed importante, di “magister equitum” (comandante della cavalleria) sotto il console Marco Vinicio Rufo. Non solo: è rimasto nella storia per aver fatto innalzare il Circo Flaminio e soprattutto per aver costruito la via Flaminia che, da Roma, attraverso l’Umbria e le Marche, saliva (e sale ancora) sino a Rimini. Meriti di non piccolo conto.
Flaminio perse, è vero, la battaglia del Trasimeno (molti storici lo definiscono, più correttamente, un “agguato”), ma gli dovrebbero essere riconosciute per quella disfatta diverse attenuanti. Che vanno individuate, intanto, nella mentalità dei Romani, ligi a quei tempi all’etica del combattimento leale, a viso aperto; poi alla disparità delle forze in campo: Flaminio disponeva di 25.000 uomini contro i 40.000-45.000 punici; infine, allo svantaggio della posizione in cui si era venuto a trovare (stretto tra i rilievi ed il lago) ed alla presenza della nebbia, che limitava enormemente la visibilità.
E’ la mattina del 21 giugno. Flaminio insegue i punici che scendono dal nord verso Roma (sull’onda dei successi al Ticino e alla Trebbia), in attesa di ricongiungersi alle legioni del suo collega console. Alle 5 l’esercito romano si rimette in cammino, lasciando l’accampamento di Borghetto,  col solo intento di tallonare i cartaginesi di Annibale. Le legioni di Flaminio hanno appena attraversato il Malpasso (tra la collina di Tuoro e il Trasimeno) quando il cartaginese, che si era accampato in alto e aveva disposto le sue truppe a semicerchio, ordina l’attacco, fa scattare il tranello. La fanteria gallica, i frombolieri delle Baleari, i cavalieri della Gallia si riversano dall’alto sugli avversari, colti di sorpresa. I soldati romani, che per attraversare il Malpasso, si erano dovuti disporre in fila indiana, tentano di ricomporre le linee tradizionali. La furia ed il numero degli avversari non facilitano questa manovra. Lo scontro, ferocissimo ed impari, dura circa tre ore.

Annibale, condottiero cartaginese

Alle 10 del mattino la mattanza è finita: sul terreno restano i cadaveri di circa 10.000 tra romani e alleati e soltanto 2000 cartaginesi. Una parte dell’esercito (6.000 uomini), che era riuscito a sfondare ed era salito sulle colline, si era poi dovuta arrendere il giorno successivo (22 giugno) a Maarbale ed ai suoi gagliardi lancieri iberici. Resa a patto di aver salva la vita. Annibale, però, concede la libertà agli alleati dei romani (la sua politica perseguiva il fine di staccare le popolazioni italiche, alle quali mostrava benevolenza, dall’alleanza con Roma) e trattiene prigionieri questi ultimi (passati, poco tempo dopo, per le armi): da qui il detto sprezzante romano sulla “Fides punica”, la lealtà cartaginese, cioè la doppiezza, l’inganno, il tradimento.

Anche in questa circostanza Flaminio combatte, impavido (lo scrive Livio) e muore armi in pugno, sbalzato di sella, da tale Ducario che, dopo averlo ferito a morte con la lancia, lo avrebbe decapitato. Compiendo con questo atto barbaro una sorta di nemesi contro il console che, pochi anni prima, aveva fatto strage della sua tribù, gli Insubri.
Annibale ordina di ricercare sul terreno dello scontro il corpo del console, ma non lo trova. Probabilmente perché i Galli, a caccia di prede, spogliarono subito i caduti e perché, senza più testa e armatura, il corpo del generale risultò irriconoscibile.
Una seconda battaglia sul Lacus Umber (forse in zona Colfiorito) aggravò la “débâcle” romana: un contingente, guidato da Caio Contenio e mandato in soccorso di Flaminio, fu annientato da Maarbale: altri 4.000 uomini morti o prigionieri.
Per concludere: Gaio Flaminio venne sconfitto da Annibale, ma non per questo  deve essere descritto come imbelle. Di azioni degne di memoria ne ha messe in fila molte. E anche la sua tragica fine si dimostrò utile a Roma: la tattica di Quinto Fabio Massimo “Cunctator” (temporeggiatore) fu figlia della presa di coscienza di come si dovessero adottare astuzie e stratagemmi per contenere il nemico. E poi definitivamente annientarlo, nella battaglia di Zama.
Elio Clero Bertoldi 
Nell’immagine di copertina, la cruenta battaglia del Trasimeno

Lascia un commento

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi