“Non esiste luogo in cui l’amore non possa vincere”. Perché anche un sentimento, intenso e profondo, pronunciato solo con gli occhi, può nascere e svilupparsi nel più oscuro dei luoghi, in uno dei momenti più bui della storia dell’uomo. E’ la vicenda che si narra ne “Il tatuatore di Auschwitz”, mini serie tv in onda su Sky Atlantic e ispirata all’omonimo romanzo bestseller internazionale di Heather Morris: i protagonisti sono Lali e Gita, due prigionieri ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
Lali è uno slovacco deportato nel 1942 nel campo di concentramento nazista di Auschwitz II-Birkenau, dove viene incaricato di marchiare gli altri detenuti coi numeri di identificazione. Durante questa attività, incontra Gita, un’altra ebrea: i due si innamorano a prima vista, è proprio il caso di dirlo. In quel luogo di perdizione, basta solo una parola per essere picchiati selvaggiamente o addirittura uccisi sul posto e quindi il sentimento può manifestarsi solo con gli occhi o con un lieve tocco delle dita. Nonostante la sorveglianza dell’ufficiale delle SS Baretzki, i due cercano di sostenersi e proteggersi a vicenda. Decenni dopo, Lali, ormai ottantenne e vedovo, incontra Heather Morris, una scrittrice esordiente a cui racconta la sua storia d’amore, rivivendo il passato nel campo dove l’orrore è quotidiano e dove il cielo è oscurato costantemente dal fumo sprigionato dai forni in cui ogni giorno si bruciano migliaia di persone.
“Questa è una storia d’amore”: così esordisce Lali Sokolov, iniziando la sua intervista con un’infermiera e aspirante scrittrice neozelandese, Heather Morris (reale autrice del romanzo da cui è tratta la serie). “Il tatuatore di Auschwitz” nasce da una co-produzione tra Italia, Australia, Stati Uniti e Regno Unito (prodotta da Synchronicity Films e Sky Studios) ed è il riuscito tentativo di conciliare una vera storia d’amore con la più oscura atmosfera immaginabile: quella del peggior campo di sterminio nazista. Parrebbe una contraddizione, ma la forza delle pagine del libro e conseguentemente delle immagini della fiction sta proprio nella capacità di descrivere gli orrori dell’Olocausto attraverso la lente della sopravvivenza. All’epoca della pubblicazione, il testo di Heather Morris – edito nel 2018 e basato su un rapporto personale con il sopravvissuto dal 2003 fino alla sua morte nel 2006 – sollevò diverse perplessità, soprattutto sulla capacità della finzione di rappresentare adeguatamente un evento storico così atroce; le critiche erano fondamentalmente incentrate sull’inesattezza di alcuni dati storici e soprattutto sulla liceità di romanzare un evento così complesso e oscuro, semplificandone la portata.
Ma si tratta di obiezioni che appaiono piuttosto pretestuose, se non addirittura infondate. La fiction ha la capacità di riportare e trasmettere il dramma di alcune delle peggiori atrocità subite dai detenuti nel campo: suscita emozioni forti e dunque assolve al compito di narrare un evento storico atrocemente orribile e di tener viva la memoria dei sei milioni di innocenti (in massima parte ebrei) che furono sterminati nei campi di concentramento. Nel prodotto televisivo, il regista Tali Shalom-Ezer riesce ad intrecciare, attraverso un sapiente montaggio, due racconti, che si sovrappongono e che si integrano a vicenda: il primo è legato al passato drammatico di Ludwig “Lali” Eisenberg (interpretato da giovane da un ottimo Jonah Hauer-King) nel campo di sterminio di Auschwitz II-Birkenau, e l’altro legato agli incontri dell’aspirante scrittrice Heather Morris (in tv Melanie Lynskey), nell’Australia dei primi anni Duemila, con l’ormai ottantenne ex prigioniero, interpretato da un magistrale Harvey Keitel.
La storia d’amore fra Lali e Gita (sullo schermo Anna Próchniak), coltivata all’ombra della morte e della brutalità costante, diventa una fiammella di speranza in mezzo a sofferenze inimmaginabili (gli orrori nel campo, gli omicidi, gli esperimenti clinici si intrecciano con le storie di altri gruppi brutalizzati: Rom, omosessuali, donne incinte). In un contesto orrendo dove la dignità è solo un concetto astratto, c’è anche spazio per un barlume di umanità perché l’ufficiale delle SS Stefan Baretzki (bravissimo Jonas Nay), chissà per quale ragione, riesce ad assicurare alla coppia una certa protezione e anche alcuni piccoli vantaggi, inimmaginabili per gli altri deportati. Nonostante la presenza di una crudeltà indicibile, i due riescono a mantenere la speranza e, attraverso mille peripezie, a sopravvivere. Quando si ritroveranno in una Bratislava mutilata e offesa da anni di occupazione nazista, si sposeranno e lasceranno per sempre la loro terra per trasferirsi in Australia dove nascerà il loro unico figlio.
Quella di Lali e Gita è una storia intensa sul potere della sofferenza e sulle luci della speranza. Su una promessa di futuro quando intorno tutto è buio. E’ vero, nella fiction ci sono qua e là delle smagliature, alcuni passaggi risultano un po’ forzati, ma la potenza della storia viene resa con indubbia efficacia. Peraltro un film o un romanzo assolvono al loro compito quando riescono ad emozionare, a suscitare sentimenti, non necessariamente positivi. D’altronde, se si pensa che sono state recentemente colmate di premi pellicole oggettivamente inguardabili e noiose cone “Oppenheimer” e “Perfect days”, dove al di là della bravura degli interpreti, c’è veramente poco, allora “Il tatuatore di Auschwitz” è un piccolo capolavoro. Parere personale, naturalmente.
Buona domenica.
Nell’immagine di copertina, Lali e Gita protagonisti della serie tv “Il tatuatore di Auschwitz” in onda su Sky Atlantic
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