ROMA – Il “Dantedì”, istituito per il 25 marzo dal Consiglio dei Ministri, per ricordare la settecentesima ricorrenza della morte nel 1321 del Sommo Poeta, ha visto innumerevoli iniziative in Italia, soprattutto mostre e dibattiti letterari. Ma fra gli omaggi televisivi forse, a livello popolare, sinora il più intenso è stato la straordinaria, ampia e personalizzata “lettura” del quinto Canto dell’Inferno dantesco, con le stupende terzine sul dramma amoroso e la morte di Paolo e Francesca, tenuta dal nostro Roberto Benigni, davvero indimenticabile.
Chi ha poca dimestichezza con l’opera di Dante – ma una pur semplice preparazione la posseggono tutti, essendo tema fisso nella scuola dell’obbligo e nei corsi superiori – forse ignora che il poeta, nella fase finale della sua vita, fu oggetto di censura da parte della Chiesa, con condanna al rogo di una sua opera. Sì, l’uomo di fede, l’autore del più grande poema sacro esistente – “La Divina Commedia” – noto in tutto il mondo, fu messo all’Indice per il suo “De Monarchia” (1312-13, ma esistono contrasti sulla data), testo latino, ovviamente destinato ai dotti, l’unico di Dante a carattere politico, diviso in tre settori su tre diverse tematiche, la cui condanna fu pronunziata dal cardinale Bertrando del Poggetto, che nel 1329 bruciò pubblicamente l’opera – peraltro discretamente diffusa – che il S.Uffizio nel 1559 iscrisse fra i libri proibiti, e la cui condanna restò valida fino alla fine dell’Ottocento.
La lettura del “De Monarchia” non è agevole, data la struttura basata su sillogismi e posizioni aprioristiche (“Come il cielo è mosso da un unico motore, Dio, così il genere umano è perfetto e regolato da un unico principe, il Monarca”, Libro I cap.9). Tale lettura inoltre si diffonde anche su temi che allora potevano dirsi scottanti – il rapporto fra potere temporale e spirituale e dunque fra Stato e Chiesa, il diritto divino di Roma di soggiogare i popoli divenendo Impero universale – temi che però oggi sono totalmente lontani da noi. Eppure la posizione di Dante è singolarmente equa, imparziale, e persino moderna, proponendo l’autonomia e il diritto di cooperare dei due poteri, terreno e celeste. Ma Dante sa che l’uomo può cadere vittima di passioni, allontanandosi dalla verità e da precise competenze: e a questo punto appaiono nel “De Monarchia” le espressioni più pericolose, tali da indurre la Chiesa all’accusa di eresia (anche la Commedia non ne manca, vedi Purgatorio XVI, I27-29: ”la Chiesa di Roma per confondere in sé due reggimenti, cade nel fango,”).
Infatti a combattere ignoranza e incompetenza sono tre categorie di persone, “il papa e i suoi seguaci, quelli ottenebrati dalla cupidigia, cristiani solo di nome, ed i ‘decretalisti’, falsi teologi, seguaci dei Decretali, la cui autorità deve essere posposta a quella di Cristo”. Ma nel 1921, Benedetto XV scrisse sul De Monarchia parole liberatorie: “In verità noi riteniamo che gli insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice Carme, possano servire quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo”.
Paola Pariset
Nell’immagine di copertina, Dante nel dipinto del Bronzino del 1533
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