PERUGIA – Immaginate una schiera di cavalieri, armati alla leggera, che avanza al trotto. Tra loro, addobbato coi colori rosso e blu della propria casata, un giovane di 24 anni, dal naso importante e dallo sguardo fiero, altezzoso. Sebbene il suo cuore, in quegli istanti – lo confesserà lui stesso, molti anni dopo – battesse rapido per la paura. Quel soldato in sella a un destriero si chiamava Dante Alighieri e faceva parte della prima schiera di “Feditori” al comando di Vieri de’ Cerchi. Tra quei militi, a qualche fila di distanza, anche il senese Cecco Angiolieri, l’irridente poeta (amico e avversario del padre della lingua italiana, tanto da minacciarlo, in un sonetto, con la rima: “E se di questo vòi dicere piùe, Dante Alighier, i’ t’averò a stancare; ch’eo so lo pungiglion, e tu se’ ’l bue”.)
Sei anni prima Dante aveva ricevuto, rimanendone incantato e fulminato, il saluto di Beatrice Portinari (l’aveva incontrata la prima volta all’età di nove anni), l’amore purissimo della sua vita. E da quattro anni era sposato con Gemma. L’arte poetica l’Alighieri l’aveva appresa dal più noto dei suoi maestri: ser Brunetto Latini. Ma, nel Casentino, in groppa alla sua cavalcatura, Dante non era nelle condizioni di pensare alla donna dei suoi sogni, né alla moglie (una Donati, dalla quale, forse, aveva già avuto il primo figlio) e non stringeva in pugno la penna per comporre sonetti o canzoni, ma soltanto un pesante scudo e la lancia aguzza con cui affrontare i baldanzosi nemici, che lanciavano urla minacciose, pronti ad affrontarlo.
Era la mattina dell’11 giugno 1289, giorno di San Barnaba. Ed i fiorentini del partito guelfo sulla piana di Campaldino, a poca distanza dal castello di Poppi, in Pratomagno, fremevano, pronti a lanciarsi al galoppo contro l’esercito degli avversari, gli aretini, da sempre partigiani della fazione ghibellina. Il “casus belli”, una bega territoriale, che toccava, in particolare, gli interessi dei molti feudatari che possedevano terre e castelli nella zona di confine, il Casentino ed il Valdarno, tra Firenze ed Arezzo, come i Guidi, gli Ubertini, i Tarlati. Vani si erano rivelati i tentativi di ricomposizione pacifica tra le parti. Il vescovo di Arezzo, Guglielmino degli Ubaldini, aveva perfino trovato un abbozzo di intesa, inimicandosi però i suoi stessi concittadini, tanto da essere costretto ad una rapida marcia indietro per evitare d’essere accusato di tradimento, a dover indossare l’armatura e ad porsi a capo dei suoi con a fianco il conte Guido Guidi e il nobile Bonconte da Montefeltro.
L’esercito degli aretini – formato da 8.000 fanti e 800 cavalieri – appariva nettamente in inferiorità numerica di fronte al nemico (10.000 fanti e 1.300 cavalieri, provenienti anche da Siena, Lucca, Pistoia, Prato, Massa), però contava sulla maggiore esperienza militare dei suoi effettivi contro l’improvvisazione degli artigiani e mercanti chiamati, per la prima volta, alle armi dalla città del Giglio. A caricare per prima toccò – all’ordine lanciato dai comandanti in capo: Amerigo di Narbona e Guillaume di Durfort (poi ucciso negli scontri) – alla cavalleria leggera fiorentina. Che sebbene si stesse comportando bene (Dante e Cecco, compresi) fu costretta dalla pressione nemica, se non alla rotta, ad una precipitosa ritirata. Sembrava, quel cedimento, un episodio negativo e invece si trasformò, da un punto di vista strategico, nella chiave della vittoria. La cavalleria aretina, infatti, si lanciò all’inseguimento dei rivali senza mantenere, tuttavia, le distanze tra i reparti, soprattutto con la fanteria. Così l’immediato contrattacco risultò devastante per i ghibellini.
L’entrata in battaglia, sul fianco destro dello schieramento ghibellino, della cavalleria di riserva – trecento cavalieri pistoiesi al comando di Corso Donati – si rivelò la mossa definitiva vincente dei guelfi, che sgominarono, letteralmente, gli aretini. Questi ultimi lasciarono sul campo quasi duemila morti (contro le trecento vittime di parte guelfa) e oltre duemila prigionieri. In battaglia persero la vita lo stesso vescovo (armato di mazza, perché essendo prelato gli era vietato versare sangue umano), il conte Guidi e Bonconte (che il sommo poeta ricorderà nel Purgatorio). Secondo alcune fonti subito dopo, nell’agosto, l’Alighieri avrebbe partecipato anche all’assedio ed alla conquista, nel pisano, del castello di Caprona. Quattordici anni più tardi Dante – entrato in politica e diventato, frattanto, persino Priore della sua città -, cacciato dal governo guelfo dei Neri si trovò, ironia del destino, tra le file dei ghibellini. Ma non partecipò alla battaglia, non almeno in armi (era il segretario di Scarpetta Ordelaffi di Forlì, il leader della sua fazione) nella battaglia della Lastra, alle porte di Firenze, che divenne una sorta di Waterloo per le speranze dei fuoriusciti (di cui Dante era uno dei più eminenti rappresentanti).
Privato dei beni e condannato a morte in contumacia (al rogo), il sommo poeta iniziò la sua vita di esule e provò “come sa di sale lo pane altrui” e “come è duro calle, lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Ormai in contrasto coi suoi nuovi alleati, dopo i fatti della Lastra, l’Alighieri “fece parte da solo” e, irritato, lasciò “la compagnia malvagia e scempia”, con la quale aveva convissuto per alcuni mesi. L’esilio, durissimo per lui (“Legno sanza vela e sanza governo – scrisse – portato a diversi porti e foci e lidi dal vento secco che vapora la dolorosa povertade”) divenne però proficuo per i posteri: fu durante questo periodo che l’Alighieri compose la “Comedia”, (successivamente titolata “Divina Commedia”), uno dei pilastri della cultura non solo italiana.
Elio Clero Bertoldi
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