NAPOLI – Da tanto tempo, ormai, in ambito educativo, si discute sulle capacità innate o meno dei ragazzi, su quanto incidono videogiochi e social network sulla loro psiche. Spesso la loro intelligenza viene addirittura messa in discussione rispetto alla incapacità di essere concentrati sullo studio, alla incessante dedizione che hanno per i videogiochi. Nell’incertezza dei genitori sulla quantità di tempo da concedere nell’impegnarli a tali attività passive o a tutte le attività da svolgere per tenerli impegnati o occupati a cui sono più o meno appassionati, la dialettica è infinita: “Devi studiare! Devi stare meno tempo davanti ai videogiochi! Devi fare sport! Devi, devi, devi…”.
Insomma di fronte alla incapacità dei genitori di saper dare delle direttive chiare, o forse, ahimè, di fronte alla incapacità di dedicare loro del tempo, si barcamenano alla ricerca di spunti, consigli o, cosa peggiore, ricorrendo allo psicologo o al dottore che deve trovare la soluzione per rendere il figlio migliore. Trovare la forma e il modo per renderlo il primo nel gruppo classe o quanto meno, capire perché mai il figlio non è l’eccellenza che tanto desiderano. Negli ultimi anni in Italia si è assistito a un discutibile boom di diagnosi e relative certificazioni: dai disturbi dell’attenzione a quelli dell’apprendimento, dalla dislessia alla discalculia. Bambini che in passato sarebbero stati definiti come vivaci o indisciplinati oggi hanno diagnosi precise, con certificazioni rilasciate da neuropsichiatri. Ma è possibile che così tanti bambini abbiano sviluppato questi disturbi?
Nel suo ultimo libro, “Non è colpa dei bambini. Perché la scuola sta rinunciando a educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare”, il pedagogista Daniele Novara evidenzia che l’accelerazione con cui le diagnosi stanno crescendo nelle scuole italiane non è in linea con le statistiche internazionali. Lo studioso sostiene che stiamo sostituendo la psichiatria all’educazione e che in questi ultimi anni è diventato “perversamente più facile definire ‘malato’ un bambino che impegnarsi a educarlo in maniera corretta. È fondamentale fare chiarezza sulla sostanziale differenza tra le difficoltà che un bambino o un ragazzo può incontrare a causa dell’immaturità del suo sviluppo e una patologia vera e propria. La mia impressione è che nel dubbio si scelga la via della certificazione, quasi per non correre rischi, quasi per non lasciare i genitori senza una risposta”.
Il bambino che riceve una diagnosi di disabilità o di disturbo dell’apprendimento non si sentirà per questo più aiutato e tranquillo. Questo è un grandissimo equivoco. Si sentirà al contrario escluso ed etichettato: il rischio è proprio quello di disattivare le sue risorse. Le mosse giuste sono di carattere educativo. Non possiamo lasciare i bambini tutto il pomeriggio davanti ai tablet. La confusione sta rovinando l’educazione dei nostri figli, e la situazione viene risolta semplicisticamente stabilendo che hanno bisogno di essere visti non dai genitori stessi, come attenzione e compagnia da dedicare in maniera naturale ma, dallo psicologo, dal dottore che deve diagnosticare quel qualcosa che non va. Come a casa, così a scuola la situazione non cambia. Molti insegnanti pretendono di avere in classe dei bambini precisi, puntuali e “scolarizzati”, che parlino come adulti, che non abbiano più uno straccio di pensiero magico, che non siano più vivaci, disordinati.
“Signora, lo faccia vedere perché dopo 30 minuti non sta più attento a scuola”, viene detto alle mamme, ma nessun bambino sta attento passati i 30 minuti! Ma certe maestre o professori che siano, hanno davvero voglia di dedicarsi all’alunno con tutte le problematiche che portano o ci si nasconde dietro al fatto che non è di sua pertinenza prestare attenzione e dedizione al ragazzino? E’ spesso la loro incompetenza in questo ambito a portare alla necessità di diagnosticare. Il rischio è proprio di creare una sorta di identità destabilizzata, per cui l’alunno finisce con l’identificarsi non tanto con le sue risorse quanto con la sua mancanza, riconoscendosi in uno stato precario. Portando un marchio indelebile che lo definirà per sempre.
L’insegnamento lascia dei segni: quando i bambini trovano degli insegnanti che li valorizzano sono salvi. La scorciatoia imboccata, la più semplice e immediata, consiste nel consegnare figli e alunni nelle mani di medici, psichiatri, neuropsichiatri, psicologi, pediatri, logopedisti. Ma i bambini non hanno colpe, avrebbero diritto a qualcosa di più costruttivo, a un progetto di qualità migliore, invece di una scuola che getta subito la spugna e chiama i pompieri di fronte al primo fiammifero acceso.
Innocenzo Calzone
Condivido in tutto questo articolo del mio amico Innocenzo, compagno di ore liete oltre che sui banchi del Liceo. Allargando il campo d’orizzonte, potremmo aggiungere qualcosa e andare oltre. Anche una scuola che tenti di introdurre o scimmiottare teorie formative performanti come se un processo educativo fosse quantificabile al pari di un bilancio di un’Azienda che deve fare profitti, sta già rinunciando – a mio avviso – a quella che dovrebbe essere la sua più grande e principale ambizione: allenare la creatività e la consapevolezza a non doversi rassegnare a un pensiero unico. In poche parole ad essere critici, a valutare se non proprio a giudicare, a partecipare attivamente a tutto ciò che in qualche modo ci riguardi. Sono queste le strade maestre per crescere e diventare adulti e le vere via di fuga dall’alienazione consumistica ed edonistica in questi tempi bui in cui abbiamo inutilmente tutto ciò di cui non avremmo assolutamente bisogno e abbiamo smarrito il senso della Croce. Tullio