Niculinu se ne stava seduto ogni pomeriggio davanti all’uscio di casa dai primi giorni di maggio a ottobre inoltrato, gli piaceva la luce dorata del sole che faceva sbrilluccicare le foglie di salvia e di basilico che non mancavano mai nelle sue rastuzze di cotto. Alle quattro in punto tirava fuori la sua seggiola di cimarra e, gonfiandosi la pancia e il petto, chiamava ad una ad una le vicine: Cettina, Ciccina, Rosa la Tedesca e Mariuzza la Capizzota. U’ cafè è ‘ncapu, diceva fiero di essere il caporale di quell’esercito femminile.
Le solerti comari rispondevano chi da dietro le persiane, chi dal balcone mentre si andavano asciugando le mani ancora insaponate e, fingendo un certo da fare, temporeggiavano ancora qualche minuto nelle loro cucine rumoreggiando con piatti e casseruole, poi ancora con il fadale lercio di chiazze d’ogni tipo e intriso di odore di cipolla e peperoni fritti, andavano leste leste da Niculinu che al caffè aggiungeva sempre due giammelle o una mangiata di mandorle tostate. Le altre donne del quartiere guardavano da dietro le tende quell’allegra combriccola e si lanciavano occhiate e gesti di disappunto, mentre giungevano alle loro orecchie mozziconi di parole, risate sguaiate e la voce squillante di quell’unico masculu, che si portava la mano alla bocca per darsi un contegno.
Ciccina, che tra tutte era la più pizzuta, tenendo a mezz’aria la tazza del caffè e dando una gomitata a Rosa chiedeva a Niculinu se il vestito che si stava facendo cucire dal sarto era finalmente pronto giacché erano due mesi che andava su e giù da Don Carmelo a provare una volta la cammisa, una volta la giacchetta. Niculinu, noncurante di quel doppio senso, rispondeva alle quattro comari che il sarto era un tipo fino e preciso e il tempo se lo prendeva. In verità, a lui non dispiaceva affatto tornare più e più volte da Don Carmelo, dove il suo giovane aiutante lo accoglieva sempre con un sorriso benevolo e gli offriva un poco di rosolio mentre il mastro sarto era di là con qualche cliente. L’ apprendista sarto attaccava facilmente bottone con chiunque, ma con lui era ormai amicizia bell’e fatta, tant’è che spesso si vedevano all’osteria per mangiarsi un piatto di fave lesse e bere un bicchiere di vino rosso.
Niculinu tornava turbato nell’animo e nel corpo da quegli incontri serali, ma non si attardava perché a casa l’aspettava l’anziana madre, ormai allettata da anni, e verso la quale si sentiva in obbligo per averlo tirato su da sola, senza marito. Niculinu s’adoperava a darle sollievo ora sistemandole i cuscini, ora imboccandole il gelato alla vaniglia che le prendeva da Pippinu ogni pomeriggio d’estate, quando passava nella sua viuzza con la lambretta blu. Scendeva in fretta e furia e, scansando i mocciosi che in mutande si accerchiavano attorno a quel nettare, allungava la mano destra ingioiellata per afferrare il cono che Pippinu aveva già pronto facendo cadere le trecento lire sul metallo del bancone ambulante.
Niculinu imboccava la madre, Niculinu lavava, Niculinu cucinava, stendeva i panni e stirava: mancu ‘na fimmina, dicevano i parenti e i vicini con un certo sfottò: mancu ‘na fimmina…
Accudì la madre con devozione fino alla morte, poi restó solo e per mantenersi dovette mettersi al servizio di questo o di quello, lavorando a giornata o nei biliardini a scambiare soldi per gettoni. Finalmente a cinquant’anni e più con l’aiuto del parrino riuscì ad avere una piccola pensione e visse dignitosamente. L’unico lusso che si concedeva era il vestito buono e una coppola di velluto. Un’estate, andò per qualche mese in Belgio a trovare lontani cugini che erano venuti l’anno prima; quando rientrò, Rosa la Tedesca, riconoscendo per antica esperienza, il clacson della macchina di noleggio, andava gridando: Niculinu, Nicilinu turnà. Non era ancora sceso dal Mercedes, che da Catania lo aveva riportato in paese, che le vicine erano già davanti alla sua porta. La solita Ciccina, mano al fianco, lo squadrò dalla testa ai piedi e disse: Niculinu cumu ti cumminasti?
Niculinu di fatto era tornato diverso: era più asciutto di panza, più pallido e teneva una coppola di pelle in testa e un borsello marroncino.
Ivi -gridarono le altre – Niculinu ma chi pigghiasti l’aria do cuntinenti?
Ma la cosa che li impressionò di più furono i due volpini bianchi che teneva al guinzaglio. Niculinu, contento di tanta accoglienza, si scordò di pagare il tassista che, dopo dieci minuti di inutile attesa, diede un colpo secco di clacson ricordando al vacanziere di mettere mano al portafoglio. Niculinu , riposatosi dopo un viaggio di ventiquattro ore, si sedette come antica abitudine davanti alla porta in compagnia dei due canuzzi, Lulù e Margot; invitò le vicine che altro non aspettavano il vecchio richiamo e che si assieparono davanti a quell’uomo, desiderose di soddisfare quel vuoto di tempo. Lui non lesinò particolari anche piccanti e qualche escargots.
Poi tutto tornò alla quotidianità.
Niculinu, già di prima mattina indossava il grembiule, spazzava il cortile di casa e oltre, fino all’angolo della sua via, e puliva le sue camaredde, una sotto, l’altra sopra. A mezzogiorno s’indaffarava davanti alla cucina per prepararsi un piatto di pasta e un po’ di carne. Non di rado qualche ragazzino tuppiava alla sua porta per conto della madre a chiedere ora una cipolla, ora una testa d’aglio, ora un limone e Niculinu dava senza pretendere.
Nicolino regalava pure il basilico, il prezzemolo, la salvia e le calle che crescevano rigogliose nella botte vecchia, ormai adoperata a mo’ di vaso, posta davanti alla sua casa. Non c’era famiglia del suo quartiere e di quello appresso che non chiedesse a lui un fiore innocente per la comunione del figlio.
L’uomo era nobile assai d’animo e gentile, ma a un certo punto fu preso da una triste malinconia per la mancanza di sua madre. Nei pomeriggi di ottobre, quando il sole era ancora tiepido, si metteva una sciallina sulle spalle e, seduto davanti alla soglia della sua casetta, sferruzzava con la lana per fare scarpi di notte, sciarpe e pillirine. E di lana Niculinu ne aveva parecchia e di tutti i colori giacché sua matruzza era solita scucire i maglioni per ricavarne il filo. È piccato farila perdiri, diceva a chiunque gli addomandava cosa dovesse fare con tutti quei gomitoli. E l’interlocutore, stupito dalla maestria di quel bonaccione, chiedeva se avesse intenzione di portate la dote a qualche zitella o vedova. Niculinu arrossiva e, intrecciandosi una ciocca di capelli ricciuti e ispidi, rispondeva ridendo: ormai mi vuta l’umbira.
Di mattina, specie nei giorni di mercato era solito uscire presto. Si lavava accuratamente; si sbarbava; si curava le unghie con dovizia stendendo un velo di smalto trasparente e poi indossava i blue jeans che aveva comprato in Belgio, il dolcevita sul quale spiccava il crocefisso d’oro appartenuto al padre. Nelle giornate più fredde si legava al collo la sciarpa bianca orlata da lunghe frange, che lui stesso si era fatto ai ferri e che ostentava con orgoglio e, impettito, andava verso la piazza del paese.
Bighellonava tra le bancarelle di frutta, di pezze e di intimo, comprando ora la spagnoletta per la vicina, ora una dose di amido per un’altra o li diavulicchi per la signora Sarina. Gli ambulanti, anche forestieri, avevano preso ad amare quell’uomo semplice, solo una masnada di monelli lo derideva per le sue movenze: camminava, infatti, ritto e lento, lo sguardo attento e le orecchie tese come quelli dei suoi cani per captare qualche discorso o una critica da riportare alle amiche durante l’ora di caffè. Tornava sempre con qualche pruvatanza: ora un fidanzamento andato a male, ora qualcheduna con il cicero, ora una fuitina. Saziava di parole le sue avide comari. Reagiva poco o per nulla agli ammiccamenti volgari di giovanotti che sostavano stanchi e annoiati nei bar e ridendo rispondeva: cumu vi spercia, ma avrebbe voluto dire altro.
Intanto il tempo passava e Niculinu si faceva più lento. Gli pesava il Natale e ancor più il lunedì di Pasqua quando la sua strada si svuotava e regnava un silenzio di morte. E lui alla morte pensava sempre, soprattutto quando la luna proiettava le sue ombre lunghe in camera da letto. Pensava a suo padre benché non ne conoscesse il volto, a quell’unica sorella che era sopravvissuta solo qualche giorno, ma si dilaniava il cuore per sua madre: era vissuto solo e sempre con lei; si era coricato nel suo stesso letto anche quando era divenuto grande e uomo; era stato figlio e amico, marito e consigliere di quell’unica donna della sua vita.
Niculinu, lo chiamava. Niculinu, Niculinu nun mi lassari, diceva la donna e Niculinu non la lasciò mai.
Ca sugnu, ca sugnu, rispondeva agli accorati appelli della madre mentre trapassava. Se lo ricordava bene, ca sugnu, ca sugnu e piangeva mentre in solitudine un’altra sera scivolava verso la notte.
Niculinu diventò vecchio, stanco, malinconico, nessuno più tuppiava alla sua porta come prima. Rosa la Tedesca era tornata in Germania, Ciccina era diventata vedova, la Gangitana si era fatta la casa verso ‘ncapu. Ogni tanto qualcheduno tamburellava sul vetro per questare un’offerta per San Francesco o San Giuseppe. Il disgraziato si alzava, prendeva qualche lira dal barattolo di Citrosidina e colti due calle glieli dava pregandoli di metterli sull’altare per la Madunnuzza. Per la festa del Corpus Domini, sebbene già acciaccato, stendeva il lenzuolo bianco ricamato, e sedeva in qualche altarino del quartiere. Cantava e ripeteva quelle semplici orazioni muovendo appena le labbra. Arrivò il tempo degli alberi spogli e il freddo, Nicolino ormai si vedeva poco, si sedeva dietro la porta con una sciallina scura e la coperta che aveva realizzato all’uncinetto mettendo insieme quella lana variopinta.
A dicembre di quell’anno tirava vento e freddo e tutti se ne stavano in casa, limitando l’affaccio solo per scutulari la tovaglia. Per due mattine di seguito, Niculinu non si vide, le vicine provarono a bussare, tuppiarunu più forte, si fecero convinte che fosse dal medico per farsi controllare la pressione. Neanche all’ora di pranzo Niculinu spuntava, l’uscio era chiuso fitto. Preoccupate da quel sinistro silenzio, chiamarono le guardie che con uno spintone sfondarono la porta. Lo trovarono addormentato per sempre, si era messo la cammisa di notti bona di so matri, il rosario al collo e li scarpi da notte rosa. Si era già cuncignatu per l’ultimo viaggio. A lato a lui vegliavano Margot e Lulù, gli unici due veri amici a cui mai interessò se a Niculinu piacevano gli uomini.
Tania Barcellona
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