TORINO – Il primo sciopero, documentato, della storia risale ad oltre tre millenni fa. Lo organizzò e lo attuò, con compattezza e determinazione, un gruppo di artisti, artigiani ed operai egizi, che riuscirono ad ottenere quanto richiesto e quanto loro dovuto, senza incorrere in licenziamenti o punizioni da parte del faraone, che pure è stato accompagnato da una fama di dispotismo. Correva l’anno 1157 aC e sul trono sedeva Ramses III, al ventinovesimo anno del suo regno (apparteneva alla XX dinastia). Gli scioperanti incrociarono, al giorno convenuto, le braccia mentre stavano costruendo una serie di tombe della famiglia reale a Deir El Medina.
In un momento di grande carestia – molti studiosi la pongono in relazione diretta con la violenta eruzione di un vulcano in Islanda – i lavoratori non ricevevano da tempo la loro mercede consistente, soprattutto, in pane e birra. Praticamente non potevano non solo nutrirsi, ma neanche portare il minimo indispensabile per la sopravvivenza alle loro famiglie. Da qui la decisione di smettere di lavorare. Per più giorni consecutivi. L’astensione – un vero e proprio braccio di ferro con l’autorità – si rivelò così massiccia e risoluta che alla fine il faraone concesse tutto quanto richiesto dagli scioperanti.
Due anni più tardi Ramses III (1186-1155) fu vittima di una cospirazione di palazzo: nessuna connessione, tuttavia, con gli scioperanti di due anni prima. Il re venne sgozzato con un affilato coltello (lo testimonia la ferita ritrovata sul suo corpo mummificato e studiato tra gli altri periti dal famoso egittologo Zahi Hawass). Al Museo Egizio di Torino è custodito un papiro, detto “della congiura dell’harem”, che contiene gli atti del processo cui vennero sottoposti un gran numero di cospiratori, tra i quali una delle tre mogli del faraone, Tiye e il figlio di quest’ultima, principe Pentaur. Il procedimento sul complotto si concluse con 38 condanne a morte (i rei furono bruciati vivi, per impedire loro la mummificazione, che sola, garantiva loro – secondo le credenze religiose dell’epoca – una vita nell’aldilà) mentre ad alcuni altri, tra cui Pentaur, forse esecutore materiale del patrocinio, allora diciottenne, venne ordinato di suicidarsi.
Nel corso del dibattimento si verificò un curioso e singolare episodio di corruzione. Sei concubine di Ramses III, coinvolte nella cospirazione, sedussero, concedendo le loro grazie, alcuni componenti della corte di giustizia, formata da dodici giudici, due sorveglianti reali e dieci ufficiali dell’esercito. Dei cinque, che si erano fatti “comprare” e che vennero colti in flagranza di reato in una sorta di licenziosa “ammucchiata”, quattro subirono una terribile menomazione: il taglio del naso e degli orecchi; l’ultimo scelse il suicidio.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, il faraone Ramses III
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