Fame di fama. Il gioco di parole indica un fenomeno (disagio, patologia?), più diffuso tra giovani e adulti, indistintamente. I suoi sintomi sono chiaramente individuabili: desiderio compulsivo di apparire e mostrarsi al fine di ottenere consenso, così, banalmente. Allo scopo, ormai da anni i social si offrono come vetrine dove esporsi e guadagnarsi il gradimento della community, il mondo “altro”, alternativo a quello reale. I nuovi dispositivi telefonici sono sempre più funzionali a questa nuova esigenza, essendo predisposti a scattare foto e registrare video per immortalare ogni momento della giornata. Sembra proprio che il bisogno di farsi vedere diventi via via più impellente.
Dobbiamo però capire il perché di questo fenomeno ma, soprattutto, dove potrebbe portarci, se è ancora vero che non ci troviamo già dentro. Partiamo dalle sue origini. Il successo dei social, il gran numero dei suoi utenti registrati ci dicono che all’umanità è accaduto qualcosa. La voglia di essere presente, lì, come lo sono tutti gli altri, sembra rispondere infatti all’esigenza di ricevere una “ratifica” al fatto che noi esistiamo. Citando e attualizzando Cartesio, oggi si potrebbe dire: “Appaio quindi sono”. Chi non appare, al contrario, non è. Non esiste.
La vita – come risulta – è trasferita altrove, non sta certo tra chi è rimasto “al di qua”. Il miraggio di una notorietà ingannatrice come quella che si basa sul numero di “like” ci consola perché ci fa pensare che chi ci guarda abbia anche “attenzione” per noi. Ricevere apprezzamenti, cuoricini, faccine, pollici versi e commenti incoraggianti consolida – o meglio ci fa credere – la nostra sicurezza, il nostro bisogno di “essere visti”, di esistere per qualcuno. Eccolo, dunque, il nodo. Le vetrine virtuali arginano la paura di passare inosservati – come in realtà siamo – in un mondo che va troppo di fretta e dove nessuno ha tempo per aver cura del prossimo. Il fatto è che siamo soli e questa solitudine ci ha fatto dimenticare cosa significhi provare emozioni tanto che ci accontentiamo di “postarle” o “condividerle”. Inviamo messaggi preconfezionati che elencano i pregi dell’amicizia, quale sia il vero amore, cosa sia la gioia e perché non è bene provare odio o rabbia. Con un click facciamo il pieno di quelle emozioni che non siamo più in grado di provare.
E dunque, per tutta risposta a questa desolazione che altrimenti ci attanaglierebbe, ci piace essere famosi. Ci piace perché soddisfa la nostra esigenza di “essere visti”, che come ci insegna la letteratura psicanalitica, è un bisogno fondamentale del bambino. Se trascurato, egli matura una ferita che rimarrà eternamente nel suo cuore, la stessa che le migliaia di utenti dei social pensano, inconsapevolmente, di curare sovraesponendosi sul web.
Se questa carenza affettiva da una parte ci può chiarire il motivo di tanto successo dei social, dall’altra ci apre una finestra su uno scenario culturale e politico sempre più inquietante. Alla nostra intimità, infatti, che le leggi proteggono con normative sempre più restrittive stiamo rinunciando volontariamente. La cosiddetta privacy viene da noi stessi violata ogni volta che pubblichiamo l’ora esatta in cui ci siamo svegliati, abbiamo preso il primo caffè, abbiamo avuto il primo pensiero del mattino e così per tutto il giorno. In 1984, Orwell immaginava un mondo dove anche i pensieri venivano spiati da una telecamera. Noi siamo andati oltre: non c’è neanche bisogno che qualcuno ci spii. Pur di far sapere che esistiamo siamo disposti a mettere ogni attimo della nostra vita in piazza. Ma del resto, è questo il prezzo da pagare per essere famosi.
Gloria Zarletti
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