MILANO – “Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. […] Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere”. È la riflessione di Elie Wiesel sulle sue tragiche esperienze di sedicenne ebreo deportato insieme alla famiglia nei campi di concentramento di Auschwitz e Buchenwald negli anni 1944-1945. Nelle pagine del suo libro “La Notte” (1956) egli racconta lo strazio di aver visto morire la madre, le sorelle ed il padre e fa trasparire l’amara consapevolezza di aver perso la fiducia nell’umanità e la fede.
L’autore, premio Nobel per la pace nel 1986, guarda gli orrori del campo con gli occhi di un adolescente incredulo di fronte a tanta malvagità ed è soprattutto affranto e scosso per le barbarie inflitte ai prigionieri in tenera età. Tra i tanti episodi duri di quel bieco microcosmo di morte, non potrà mai dimenticare l’impiccagione di un bambino, a cui i detenuti nel campo furono costretti ad assistere. Ad un tratto sentì qualcuno dietro di lui chiedere dove fosse Dio e perché permettesse tanto male, ma nelle righe successive aggiunge che udì una voce dentro di sé rispondergli: “Egli è qui. Egli è appeso qui su questa forca”. In fondo per tutti il senso profondo del Natale dovrebbe essere quello di credere nella vita, nella solidarietà, nella pace, in nome di un Dio che non può che essere solo amore e di quel bambinello nato a Betlemme, le cui fattezze sembrano riemergere nella sofferenza di quel piccolo prigioniero impiccato che “aveva il volto – scrive ancora Wiesel – di un angelo infelice”.
C’è un presepe in particolare molto emozionante nella chiesa di Sant’Ambrogio in Milano, la stessa città che vede quest’anno adattare – per così dire – l’abete di Natale e la sua magia ad un inno smaccatamente sfacciato all’alta moda ed al ricco mondo delle griffes. Il primo, fatto con materiale di fortuna, è denominato anche il presepe “della prigionia”. Tutto ha inizio nell’inverno del 1944, nel lager di Wietzendorf, tra Hannover e Amburgo, in Germania. Qui erano stati internati seimila soldati che, come altri seicentomila militari italiani, non avevano voluto accettare di continuare a combattere al fianco dei nazisti, né di aderire alla Repubblica sociale. Alcuni prigionieri decisero di costruire un presepe per portare un po’ di conforto, speranza, amore nella cupa disperazione di quel luogo.
Con la guida del sottotenente Tullio Battaglia, giovane professore di disegno, idearono i personaggi usando ciò che il campo offriva: dal legno dei giacigli delle fredde camerate fino al filo spinato a formare lo scheletro/sostegno delle “statuine”. Ogni soldato mise a disposizione piccole parti dei propri miseri indumenti, ricordi di famiglia e rinunciò perfino alla piccola razione giornaliera di margarina per creare le candele che avrebbero fatto luce in quella “notte” dell’umanità. Gesù Bambino fu realizzato, per esempio, con un fazzoletto di seta di un tenente, mentre il pelo dell’agnello con la fodera del cappotto di un capitano. Oltre a tutti i personaggi classici della Natività, si scorgono inoltre un militare internato con la sua divisa lacera e consunta e un soldato tedesco che, sostenuto dall’amore del bambinello nella mangiatoia, depone le armi.
Manca il bue, rimasto a Wietzendorf con quei soldati che non sono più tornati. Domenica 17 dicembre, nella Messa delle 10.30, si è compiuto l’ultimo atto di questa storia: una delegazione di cittadini di Wietzendorf ha donato all’abate della chiesa di Sant’Ambrogio un nuovo bue realizzato da un artista della cittadina tedesca, per ricomporre quel presepe della speranza sopravvissuto al lager, come segno di amicizia e di riconciliazione. Nella sua omelia il celebrante ha invocato Dio perché conceda a tutti il coraggio di urlare “Mai più la guerra/Nie wieder Krieg!”.
E così, dopo 78 anni, il presepe degli internati ritornerà finalmente ad essere completo come lo era stato a Wietzendorf. Sicuramente Tullio Battaglia e tutti i deportati, ne sarebbero stati enormemente felici.
Adele Reale
Nell’immagine di copertina, il presepe realizzato dai deportati nel campo di concentramento di Wietzendorf nel 1944
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