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Il Perugino? “Il meglio Maestro d’Italia”

di | 2022-11-11T12:18:54+01:00 13-11-2022 6:10|Arte, Sezione 3|0 Commenti

PERUGA – “Il meglio Maestro d’Italia”: così il famoso banchiere e mecenate Agostino Chigi scriveva, il 7 novembre 1500, in una lettera inviata da Roma, dove viveva ed operava, al padre Mariano, rimasto a Siena, per dargli informazioni su Pietro Vennucci, detto “Il Perugino”. A tanta fama era approdato l’artista umbro in una trentina d’anni e partendo dal nulla (nel 1472 si era trasferito da Perugia a Firenze e, proprio in quell’anno, si era scritto alla confraternita dei pittori di San Luca). A Perugia nel quadro delle celebrazioni per il quinto centenario della morte del Vannucci (nato intorno al 1450 e morto di peste nel contado di Perugia, a Fontignano, nel 1523) verrà organizzata una mostra di 70 opere che sarà aperta il 4 marzo 2023 e andrà avanti sino all’11 giugno, curata da Marco Pierini e Veruska Picchiarelli.

Pietro Vannucchi, detto “Il Perugino”

I lavori esposti arrivano dagli Uffizi di Firenze, dal Louvre di Parigi, dalla National Gallery di Londra, dalla Gemaldgallery di Berlino, dalla National Gallery di Washington ed hanno la caratteristica di risalire, tutti, a prima del 1504, data in cui Pietro avviò una attività che qualche critico ha definito di “auto plagio”, spinto dalle tante richieste che gli arrivavano da ogni parte e per le quali era stato costretto a varare, con molti collaboratori, una attività seriale, anzi quasi pre-industriale nella bottega (oggi si userebbe il termine “atelier”) di via San Gilio (ora via Bufalini), a Firenze, nelle vicinanze dell’ospedale di Santa Maria Nuova e di proprietà di Vittorio Gioberti, il figlio del grande Lorenzo, che gliela concesse in affitto.

Tra i pezzi che verranno presentati anche anche lo “Sposalizio della Vergine”, dipinto per la Cappella del Santo Anello del Duomo di Perugia e “requisito” da Napoleone. Dopo più di 200 anni la tela – che ispirò anche Raffaello – torna nella sua città, sia pure per due mesi, in prestito dal Museo di Belle Arti di Caen, Francia. Pochi anni prima la reliquia (il Santo Anello) era stata rubata in un convento di Chiusi da un religioso di Magonza, frate Winterio, in un convento di francescani di Chiusi. Il frate, a sua volta, l’aveva consegnata ai Priori di Perugia. Chiusi e Siena, con forza, reclamavano la restituzione della reliquia, ma Perugia si oppose – pure al Papa – minacciando di scendere in guerra e trattenne l’Anello – con misure di sicurezza incredibili – che ogni anno, solo per poche ore, viene mostrato ai fedeli ancora oggi. Dunque l’opera commissionata al Vannucci rivestiva un altissimo valore simbolico per i perugini del tempo.

A Firenze, sotto la Signoria medicea, dopo gli inizi della carriera in Perugia guidato probabilmente da Bartolomeo Caporali, l’artista umbro entrò nel giro di Andrea del Verrocchio, pittore, scultore, orafo, intorno al quale orbitavano Leonardo da Vinci, Lorenzo di Credi, il Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Filippino Lippi, Signorelli: scusate se è poco… “Sotto la disciplina del Verrocchio”, precisa, pignolo, nelle “Vite” Giorgio Vasari. É quest’ultimo che dipinge un Vannucci così “povero” tanto da dover dormire, durante il suo apprendistato fiorentino, “in una cassa”. Neanche fosse un odierno “sans papier”…

In realtà gli studiosi hanno recuperato documenti dai quali si evince come il Vannucci, nativo di Castrum Plebis (Castel della Pieve), provenisse da una famiglia se non ricca, quanto meno agiata e bene in vista nella comunità locale. Il Vasari – aretino e come tale “nemico” atavico dei perugini – aggiunge ancora, a rafforzare la sua antipatia per Pietro, che l’artista fosse ateo, avaro, assetato di danaro. Ora il Vannucci non sarà stato uno stinco di santo – nel 1486 aggredì, a Firenze, in concorso con un suo aiutante di bottega, e di notte, un macellaio, rivale in amore per una donna e quasi lo uccise a randellate, tanto da essere processato e condannato dai Dieci di Balìa -, ma che fosse irreligioso sembra piuttosto singolare a considerare di quanto le sue Madonne piacessero al domenicano fra Girolamo Savonarola (allora) ed al religiosissimo sindaco, fiorentino pure lui, Giorgio La Pira (a metà del secolo scorso).

Ma pure ammesso, per amor di discussione, che Vannucci non credesse in Dio e nei santi, nelle vergini martiri e nei beati, cosa c’entra tutto questo con la sua bravura e qualità artistica che lo aveva posto al centro dell’attenzione a Firenze, Roma, Napoli, Venezia, Mantova (Isabella d’Este, di gusti particolarmente raffinati, gli aveva commissionato opere) ed addirittura in Francia ed in Spagna, tanto che lo stesso Vasari aveva finito per riconoscere che i mercanti facevano incetta dei suoi dipinti “con molto loro utile e guadagno”? Ancora Vasari e molta della critica odierna si soffermano sulla formazione “fiorentina” dell’artista (non manca chi lo definisce fiorentino all’80%) per dar maggior gloria al Rinascimento fiorentino. Passi. Tuttavia Pietro Vannucci, che nel 1485 era stato ufficialmente dichiarato “cittadino di Perugia”, con tutta una serie di vantaggi anche economici (e, dunque, era già famoso), presentava nei suoi lavori una precisa identità e originalità e teneva molto alle sue radici umbre – anche a Perugia aveva aperto una bottega a due passi dal palazzo dei Priori – se firmava col semplice soprannome i suoi lavori.

E riteneva come ben caratterizzante definirsi “Perugino”, sia per le glorie del Libero Comune (tra i più potenti del centro Italia con Firenze e Siena), sia per l’alto numero di artisti che, a quei tempi, vivevano ed operavano nel capoluogo umbro. Non é un caso che Raffaello fosse stato portato dal padre, Giovanni Santi, pittore ed illuminato intellettuale della corte dei Montefeltro di Urbino, a Perugia e che sempre in quel periodo nella città del Grifo fosse venuto a studiare Pietro Aretino, che a sua volta, pur nato ad Arezzo, si proclamava, anche all’apice del successo, intellettualmente “figlio di Perugia”. Infine l’altra accusa: l’essere Pietro particolarmente attaccato a Mammona, cioè al denaro. Aspetto, questo, piuttosto probabile. Suscitò molte chiacchiere a Firenze che il Vannucci avesse preso in moglie Chiara Fancelli, figlia di Luca, noto architetto di Fiesole, bella, onesta, brava ed in più con una dote di 500 fiorini…

Bisogna riconoscere che Pietro fosse dotato di un forte spirito capitalistico e che si facesse pagare molto, sebbene nella sua città, per farsi saldare il conto degli affreschi delle pareti del Collegio del Cambio, i banchieri perugini gli facessero allungare il collo addirittura per otto anni… Tuttavia pure molti altri artisti, dell’epoca (e non solo), pretendevano contratti salatissimi e non lavoravano certo per il solo amore dell’arte. Perché scandalizzarsi, dunque? Chi è senza peccato – e forse lo stesso Giorgio Vasari non potrebbe passare indenne al vaglio sotto questo profilo – scagli la prima pietra.

Elio Clero Bertoldi

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