/, Sezione 2/Il Natale di Arafat: “Siamo per la pace”

Il Natale di Arafat: “Siamo per la pace”

di | 2018-12-23T06:58:56+01:00 23-12-2018 6:05|Attualità, Sezione 2|1 Comment

VITERBO – Era la vigilia di Natale del 2003 e in Palestina, a Betlemme, si preparava la grande cerimonia della Natività. Ero lì insieme a Luigi Daga e Filiberto Bellucci dell’Avad, l’associazione di volontariato di Tarquinia che aiuta i bambini di tutto il mondo. Con noi c’era anche Antonio Filippi della Cgil. Eravamo volati in Terra Santa per portare medicinali e giocattoli che però non potemmo consegnare per il blocco imposto all’aeroporto di Tel Aviv dalle autorità israeliane. Rimanemmo per alcuni giorni in attesa senza riuscire nell’intento.

 

Ebbi però l’opportunità di incontrare e salutare il presidente Yasser Arafat nel suo quartier generale a Ramallah, capitale de facto dello Stato di Palestina, e parlare con lui per una mezz’ora. Ci conoscevamo già, lo avevo incontrato pochi anni prima nel corso della sua visita a Civitavecchia e Tarquinia. Fu un colloquio sincero e accorato, Arafat sapeva di essere gravemente malato (morirà l’11 novembre dell’anno successivo in Francia) e il suo fu un vero e proprio sfogo. La Palestina, circondata, sotto assedio, aggredita e invasa dall’esercito di Israele, annaspava in una crisi che tuttora permane e anzi si è aggravata.

 

“Domani i vescovi verranno a salutarmi prima di recarsi al Santo Sepolcro – mi disse stringendomi la mano – E’ il terzo anno che le autorità israeliane non mi consentono di andare alla messa di Betlemme”. Poi il ricordo di tre anni prima: “Il Natale del 2000 è stato molto importante, vi ricordate il successo del Giubileo? Sono orgoglioso di essere riuscito a riunire insieme 13 Chiese davanti alla Natività. C’era anche il Papa e ventotto presidenti di altrettanti Stati”.

 

Quindi il discorso si è spostato sulla questione dei territori. E Yasser Arafat parlò della situazione che vivevano in quei giorni in Cisgiordania. “Adesso Betlemme è sotto occupazione, ci impediscono di arrivare al fiume Giordano e al mar Morto; Jenin e altri campi per i rifugiati sono stati completamente distrutti”. Il presidente dell’autorità palestinese puntò il dito contro la politica del governo di Tel Aviv e dei Paesi che lo sostenevano. “Nessuna voce nel mondo – afferma – si pronuncia contro questo crimine”. E a sostegno della sua tesi raccontò della distruzione della chiesa di Santa Barbara da parte dell’esercito israeliano. “Vi ricordate quando i talebani fecero saltare in aria le statue del Budda? Il mondo intero si sollevò, perché nessuno dice niente della chiesa di Santa Barbara? Come si possono accettare queste cose?”.

 

Era un fiume in piena, parlò dell’uranio impoverito che avvelenava la Palestina e i suoi abitanti, del 64% degli alberi d’ulivo (alcuni risalenti al periodo dell’Antica Roma) sradicati a Hebron, Betlemme, Nablus e Gerico per far posto agli insediamenti dei coloni israeliani. “Hanno confiscato il 58% della Cisgiordania – parole di Arafat – l’hanno trasformata in un cantiere. Ci hanno circondato con un muro che ci impedisce di andare a pregare nei nostri luoghi sacri. E’ peggio del muro di Berlino”.

 

Poi un accenno alla situazione dei giovani palestinesi. “Fino a pochi anni fa in Israele su 1000 studenti in 14 raggiungevano la laurea, in Palestina 19. Dopo l’occupazione i nostri ragazzi sono tutti disoccupati. Nella striscia di Gaza il livello di povertà raggiunge il 70 per cento della popolazione”.

 

Ma nonostante la grave situazione che vivevano quei territori martoriati, il presidente Arafat ci incaricò, come italiani, di aiutarlo nella ricerca della pace. “Come palestinesi e cristiani chiediamo il vostro aiuto”. “Siamo comunque – sono ancora le parole del presidente – dalla parte della pace. Il gruppo che ha ucciso Rabin adesso è al potere. Il documento di Ginevra non è un accordo ufficiale ma può aiutare il cammino della pace”.

 

Ci salutammo con tanta amarezza nell’anima. Sapeva che venivo da Viterbo, conosceva le castagne dei Cimini e mi fece una richiesta: “Quando torni fammi un regalo, portami i ‘marron glace’ fatti con le castagne delle tue parti”. Certo presidente, gli risposi, una promessa che non potei mantenere. Nemmeno un anno dopo Jasser Arafat moriva in un ospedale francese e sulla sua fine rimangono ancora tanti interrogativi. Una cosa è certa e me la dissero i suoi collaboratori più stretti proprio nel corso di quella visita a Ramallah nel 2003: il presidente è molto malato e gli israeliani gli impediscono di ricevere i farmaci di cui ha estremo bisogno.

One Comment

  1. Paolo 23 dicembre 2018 at 12:47 - Reply

    Bravo Gianni a pubblicare questa bella e confidenziale testimonianza di un grande personaggio della storia. Ci fa riflettere e ci arricchisce.

Lascia un commento

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi