FOLIGNO (Perugia) – I sandali uno accanto all’altro, la bicicletta da bambino appoggiata a terra, qualche gheriglio frantumato. Sotto il noce, a Maceratola, piccola frazione di Foligno sulle rive del Topino, a testimoniare la scomparsa del piccolo Simone Allegretti, quel 4 ottobre 1992, una domenica, festa di San Francesco, rimanevano questi oggetti, queste poche cose. Breve la distanza dalla casa del piccino: 50 metri o poco più. Chi poteva aver rapito un bimbo di quattro anni? Gli zingari? Una madre sterile alla ricerca di un bimbo da accudire?
Cominciò con questi angoscianti interrogativi la terribile storia del “killer dei bambini” che tenne con il fiato sospeso e immersa nella più profonda paura, se non nel panico, l’intera popolazione, non solo folignate ed umbra, per mesi.
Fino a quando non venne commesso il secondo, orrendo delitto, quello di Lorenzo Paolucci, 13 anni, in un casolare sulla montagna di Foligno, a Casale, il 7 agosto 1993. Fu in quel frangente, in cui l’assassino dovette agire in fretta per liberarsi del cadavere della vittima ucciso nella propria abitazione di montagna, commettendo tutta una serie di errori, che l’agghiacciante verità venne a galla. Il serial killer risultò essere un giovane di 24 anni, orfano, nato come Antonio Rossi e lasciato in un orfanotrofio di Narni, dalla madre, forse violentato a sua volta nella struttura, adottato e cresciuto in una famiglia colta, agiata e benestante (padre medico, madre maestra), ambiente insospettabile.
Sono trascorsi trenta anni dal delitto. Simone sarebbe stato un uomo, forse già sposato e, magari, padre. Invece il suo corpicino, nudo e ferito dai colpi di coltello, ucciso nella abitazione dei Chiatti in città, venne abbandonato, dallo stesso assassino in una scarpata, ai margini di un bosco, tra i rifiuti.
Non mancarono i colpi di scena. Un giovane milanese, Stefano S., si spacciò per l’autore dell’omicidio e per qualche ora il mitomane fu persino creduto. Gli esperti, dal canto loro, stilarono un “profilo” del ricercato, sulla scorta delle esperienze criminali statunitensi, che si rivelò del tutto campato in aria. La cruda, e dura, verità emerse dalle indagini prima e poi dal processo, in cui l’atroce autore del duplice delitto, Luigi Chiatti, occhi di ghiaccio e voce mai tremante, titolo di studio geometra, raccontò senza emozioni di sorta, come avesse invitato il piccino a salire sulla sua Y10, a portarlo nella propria abitazione di Foligno, a circuirlo e ad ucciderlo, nel volgere di un pomeriggio, per gettarne poi i miseri resti nella scarpata “prima che tornassero a casa i miei genitori che erano andati in gita ad Urbino”.
Due giorni dopo, nella cabina telefonica a ridosso della stazione ferroviaria di Foligno, un biglietto: “Aiuto! Aiutatemi per favore. Ho commesso un omicidio. Sono pentito anche se ora non mi fermerò qui”. Indicava il punto – tra Casale e Scopoli – in cui il cadavere era stato scaricato in una scarpata, “senza l’orologio con cinturino nero e quadrante bianco”. Indicazioni che solo l’assassino poteva conoscere. Non solo. Aggiungeva: “Non cercate impronte sul foglio. Non sono stupido fino a questo punto. Ho usato dei guanti”. E, a chiusura: “Saluti. Al prossimo omicidio”. Poi la firma: “Il mostro”. Insomma una sfida vera e propria agli inquirenti. Reiterata con un altro messaggio alle forze dell’ordine, quasi irrise: “Non poltrite. Muovetevi. Ho deciso di colpire di nuovo…”.
La mattina del 7 agosto, dieci mesi dopo il primo omicidio, Lorenzo uscì di casa. In bici. Erano le 10. “Nonno, faccio un giretto. Torno all’ora di pranzo…”, disse. Non sarebbe tornato più. Chiatti lo avrebbe invitato a giocare una partita a carte in casa sua. E lì lo avrebbe ammazzato, senza pietà, sorprendendolo alle spalle, con un forchettone, con cui lo infilzò, più volte, al collo. Lorenzo fece in tempo a mormorare: “Perché mi uccidi?”. L’altro non rispose. Anzi, lo colpì di nuovo.
Ma per spostare dalla propria abitazione il corpo della seconda vittima, ben più grande e più pesante di Simone, l’assassino dovette trascinarlo, lasciando sull’erba una scia di sangue; qualcuno lo notò, poi, mentre gettava qualcosa nei cassonetti, fuori del paese. Portato in caserma, resse poco. Di fronte alle varie contestazioni, il geometra finì per confessare. La sua carriera di killer di bambini era conclusa.
Doppio ergastolo, in primo grado. In corte d’assise d’appello l’imputato venne riconosciuto seminfermo di mente e venne condannato a 30 anni, con tre anni ulteriori di ricovero in una struttura psichiatrica. La Cassazione, a marzo del 1997, riconobbe a Chiatti “una personalità caratterizzata da un disturbo rilevante di tipo narcisista iper-vigile, con pedofilia e tratti sadici, schizoidi, paronoidi, ossessivi”.
Ogni tre anni Chiatti, ospite di una Rems (residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza) viene sottoposto ad una visita di controllo di esperti, che deve accertare se il detenuto è ancora “socialmente pericoloso”. Finora il giudizio è rimasto fermo, inalterato, inattaccabile. Per cui “il mostro” resta in custodia. D’altronde al processo lui stesso aveva dichiarato: “Se dovessi uscire, ho paura di rifarlo”.
La società ha pieno diritto di difendersi da un pericolo di tale portata e di simile concretezza.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, l’arresto di Luigi Chiatti, il “mostro di Foligno”
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