Lei si chiama Claudia Coppolecchia, ha 22 anni ed è di Molfetta, popoloso centro (quasi 60mila abitanti) ricadente nell’area della città metropolitana di Bari. Studia lingue ed è prossima alla laurea triennale. La sua storia è emblematica di come va da tempo il mondo del lavoro, soprattutto per i giovani. Ma anche per quelli più avanti con l’età non è che le cose vadano meglio.
Dunque, Claudia qualche settimana fa risponde ad un avviso comparso su Linkedin, motore di ricerca specializzato nel facilitare l’incontro tra domanda e offerta per chi è a caccia di un’occupazione. Cercano una segretaria per uno studio di commercialisti a Bari. Si candida e viene convocata per un primo colloquio; le cose vanno bene tanto che viene nuovamente contattata per un secondo incontro, stavolta proprio con il titolare dell’avviato studio di professionisti. Riceve i complimenti per la sua scelta di lavorare e studiare contemporaneamente; le fanno balenare davanti agli occhi l’ipotesi di un impiego a tempo pieno con uno stipendio intorno ai mille euro al mese, anche qualcosa in più. La proposta è interessante: Claudia è fiduciosa e, infatti, dopo un paio di giorni riceve la telefonata sperata, ma prima del contratto, è necessaria una settimana di prova.
Procedura normale e assolutamente condivibile: deve lavorare per 4 ore al giorno (di mattina o di pomeriggio, a sua scelta). La giovane accetta volentieri e si presenta con puntualità per cominciare il periodo di prova. Dopo la prima settimana, le viene detto che sono necessari altri giorni di lavoro. Passa un’altra settimana, al termine della quale Claudia si aspetta una qualche comunicazione. Lo chiede alla segretaria dello studio che, dopo un breve colloquio riservato col titolare, le consegna una busta aggiungendo che le avrebbero sapere qualcosa dopo una quindicina di giorni perché dovevano provare altri candidati.
Claudia torna alla sua macchina e finalmente apre la busta: contiene 100 euro. E’ il suo compenso per 44 ore complessive di lavoro. Ben 2,27 euro all’ora. Rabbia e delusione di mescolano incontrollabili e così decide di scrivere la sua vicenda su Facebook; il Corriere del Mezzogiorno (dorso pugliese – campano del Corriere della Sera) la riprende e la intervista e così il caso della quasi dottoressa Coppolecchia diventa di dominio pubblico. “Ho deciso che non avrei aspettato una loro risposta e ho comunicato che non sarei tornata più”, commenta amareggiata Claudia che aggiunge: “E poi dicono che i giovani non hanno voglia di sacrificarsi. Io sto studiando e a breve dovrei laurearmi in lingue, ho deciso di mettermi in gioco e cominciare a lavorare per rendermi più indipendente, e lo stesso titolare dello studio mi ha fatto i complimenti per questo. Poi però vedo come valutano il tuo tempo e mi cadono le braccia. Noi giovani vogliamo lavorare, ma spesso non siamo messi nelle condizioni di farlo dignitosamente”.
La storia di Claudia Coppolecchia è emblematica di come vanno le cose. Nel settore giornalistico, in crisi profonda e purtroppo irreversibile da anni, un “pezzo” di media lunghezza (40 righe) viene pagato 7-8 euro quando va bene. Ammesso che venga pagato perché non è affatto raro il caso di pseudo testate che per mesi sfruttano chi vuole avvicinarsi alla professione nascondendosi dietro l’alibi che “prima bisogna imparare il mestiere”. Intanto, chi (mosso da sana passione) cade in questo perverso meccanismo si danna l’anima per reperire notizie e poi scriverle in maniera dignitosa per ritrovarsi soltanto con tante spese e soprattutto nessuna prospettiva perché al termine del più o meno lungo periodo di prova, al massimo viene proposta una collaborazione ad articolo, ai prezzi di cui sopra.
E’ una situazione generalizzata in tutta Italia che istituzioni (nazionali e locali) non riescono a controllare. Qualche giorno fa, ha fatto scalpore il fatto che diverse aziende che operano nel campo dell’accoglienza e soprattutto della ristorazione abbiano lamentato l’estrema difficoltà di reperire personale anche non qualificato: è vero, ma perché non aggiungere che spesso per un matrimonio il compenso per almeno 12 ore di lavoro duro è di circa 150 euro. In nero, naturalmente. Nettamente di più dei 2,27 incassata dalla studentessa pugliese, ma per una prestazione sicuramente molto più faticosa.
E poi c’è anche il signor Briatore che sentenzia: “Una pizza margherita nei miei locali non può costare meno di 15 euro per la qualità dei prodotti utilizzati”. E che ci mette? La mozzarella con filamenti di oro… Gli hanno risposto i titolari di pizzerie qualificate, spiegando che il prezzo giusto per una margherita è di 7-8 euro al massimo e anche lì le materie prime usate sono di primissimo ordine. Ma con Briatore la soluzione è molto semplice: basta non frequentare i suoi locali.
“Avevo già l’intenzione trasferirmi all’estero per la magistrale, una convinzione rafforzata da questa esperienza – conclude amaramente Claudia -. Quando ho raccontato questo episodio, tantissimi amici mi hanno detto ‘è solo l’inizio, vedrai quando andrai avanti sarà ancora peggio’. Ma a queste condizioni l’idea di rimanere in Italia non mi affascina affatto”. C’è bisogno di aggiungere altro?
Buona domenica.
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