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“Il gioco di Northia”, la storia delle popolazioni italiche

di | 2024-06-27T19:30:03+02:00 30-6-2024 5:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

BORGOROSE (Rieti)  – “MACchelibro?”: la rassegna culturale del Museo Archeologico del Cicolano (MAC) di Corvaro di Borgorose (Rieti) ha presentato il libro “Il gioco di Northia” di Simone Tarrone (ed.Espera) con immagini illustrate di Ilenia Tiberti. Dello stesso autore “Sotto il segno di Hercle. Storia di un dono”. Entrambi sono romanzi divulgativi per adulti e ragazzi, raccontano una storia di fantasia, che ruota però intorno a reali eventi storici, con la descrizione di reperti archeologici, utensili, attraverso le avventure di Arath, un giovane adolescente curioso e instancabile e il suo cane Vipli. Il primo libro era dedicato alla storia degli Etruschi, il secondo, seguendo lo stesso schema narrativo, racconta la storia delle popolazioni italiche dell’Italia centrale, contemporanee agli Etruschi: Sabini, Sanniti, Piceni, Equi.

Simone Tarrone ( sinistra) e Francesca Lezzi, direttrice del Mac

Il Museo Archeologico del Cicolano custodisce i reperti archeologici rinvenuti nel tumulo di Corvaro (368 tombe scavate) e santuari italici. Il tumulo comunitario era stato realizzato su un precedente tumulo e racchiude sepolture dall’VIII al II secolo a.C., un periodo molto lungo, che ha consentito di risalire agli spostamenti, alle contaminazioni culturali, all’alimentazione nei secoli. Si ipotizzava che il tumulo piccolo, posto al centro, fosse di un capo guerriero, invece era di una giovane donna, probabilmente la sacerdotessa degli Equi: nella sua tomba specchi, anelli, collane in oro e argento, un cinturone alto a placche traforate (una parte è riportata nella copertina del libro), indossata dalle matrone e che poteva fungere non solo da ornamento, ma anche da sostegno per la schiena durante i lavori più pesanti, come un busto. Rinvenuti resti ossei attribuiti a serpenti, che fanno ipotizzare il culto di Angizia, tipico dell’Italia centrale (ancora oggi a Cocullo in Abruzzo, c‘è la festa dei serpari). Nelle altre tombe pugnali a stami, lance, spade, scarponi in cuoio, scudo corazza, portato in combattimento legato al corpo all’altezza del cuore. L’abbigliamento dei soldati Equi probabilmente era simile al guerriero di Capestrano (in Abruzzo).

Anche in questo romanzo, le vicende si svolgono in un quadro storico rigorosamente ricostruito, quello della civiltà etrusca e italica della fine del 500, inizio 499 a.C. “Mi sono servito di oltre un centinaio di pubblicazioni scientifiche recenti – scrive l’autore – al fine di documentare il sottofondo ambientale, culturale, paesaggistico e gli oggetti stessi che descrivo. Ho inserito un personaggio che per l’epoca in cui è ambientato il romanzo, è un ‘safine’ appartenente a quel coacervo di genti che componevano la vasta Sabina del VI secolo a.C. e che in questo caso possiamo definire meglio come membro della popolazione degli Equi, definiti dagli storici ‘popolazione bellicosa’”. Gli Equi vivevano in insediamenti sparsi, non in grandi agglomerati, dediti alla pastorizia, la loro strategia difensiva era rifugiarsi negli Ocri, mura rafforzate a pochi chilometri di distanza. Al Colle Palatino la stele (una copia è nel museo di Corvaro) di Ferter Resius, il sacerdote della guerra.

Cippo di Ferter Resius

Ricostruzione viso Equi

Gli Equi, pur essendo un popolo bellicoso e mercenario (combatterono per gli Etruschi) avevano introdotto per primi le leggi di non belligeranza, i riti feziali, con una corporazione sacerdotale, depositaria del diritto sacro relativo ai trattati di alleanza e alle dichiarazioni di guerra. I primi scontri con i Romani risalgono al VII secolo a.C. ai tempi di Tarquinio Prisco, alleati con i Volsci, arrivarono fino a Pontinia, Anzio e a Tusculum con Coriolano. Saranno poi annientati dagli eserciti romani intorno al IV secolo a.C. con l’occupazione di Alba Fucens. Gli Equi superstiti furono relegati in un’area grande un decimo di quella che si erano conquistati, che verrà chiamata in modo derisorio Ager Aequiculanus, territorio degli Equicoli (non più Equi), oggi Cicolano (fino al 1927 in territorio abruzzese). Nell’Eneide Virgilio li descrive sotto il comando di Ufente da Nersae: Venatu nemorum, duris aequicola glaebis/armati terram exercent semperque recentis/convectare iuvat praedas et vivere rapto (La dura gente Equicola, che caccia nei boschi, coltiva la terra armata, è soccorsa dall’accumulo di sempre nuove prede e da una vita strappata con la forza). L’espressione vivere rapta, può significare anche vivere di rapine “ma io – precisa l’autore – ritengo significhi più una vita dura, in un territorio aspro e difficile”.

Leggendo le avventure del giovane Arath, si scoprono storia, usi e costumi e nelle ultime pagine è di aiuto una cronologia storica, un indice commentato dei nomi di persone, divinità, luoghi, che nella vicenda vengono riportati in maiuscolo, immagini relative agli oggetti e alle strutture descritte, sopravvissute ai millenni, che ora giacciono nei musei: oggetti silenziosi, ma che hanno tanto da dire, se fossimo più curiosi e meno distratti. A quei tempi gli oggetti erano “animati”, con scritte o dediche, anche una semplice spilla ornamentale poteva portare l’incisione “io sono stata regalata da Tizio a Caio”. Le epigrafi sono importantissime, raccontano gli eventi, anche se a volte sono frammentate e di difficile interpretazione.

Il protagonista Arath e il cane Vipli

Disco corazza

Nelle ultime pagine anche la ricostruzione del volto di un antico abruzzese (tomba 96 necropoli di Barrea) fatto da Stefania Luciani. Il “Villaggio delle Mele Granate” è un nome di fantasia, ma è fondato sul toponimo latino Ad Punicum che designava in età romana imperiale una località costiera situata nei pressi dell’attuale porto di Santa Marinella (Roma) e che si poteva intendere in latino come “dai Fenici” (un emporio fondato da loro?) oppure ad malum punicum, il luogo del melograno. Il nome del cane di Arath, Vipli, significa tessitrice. Northia (o Nortia) era una dea citata dallo storico romano Livio, secondo il quale, alle Idi di settembre, un chiodo veniva infisso nel muro del Tempio Capitolino a Roma, così come nel tempio della dea Nortia a Volsinii (Orvieto) e in Etruria, per sancire il tempo che passa, con gli attributi della dea del destino. Secondo Giovenale, era la dea della fortuna.

Simone Tarrone è laureato in lettere con indirizzo demo-etno-antropologico alla Sapienza di Roma, ha lavorato nel settore della ricerca in agricoltura. I proventi del libro saranno devoluti al Gruppo Archeologico del Territorio Cerite ODV con cui collabora, partecipando a scavi, manutenzione, organizzazione di escursioni, pubblicazione di conferenze scientifiche e divulgative.

Francesco Sammarco

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