MODENA – Una gran bella città: in un tour nel nord Italia non può mancare una tappa a Modena, la città che ha dato i natali a gente del calibro di Enzo Ferrari, Luciano Pavarotti, Vasco Rossi, Giovanni Pico della Mirandola, e ospita i complessi automobilistici della Ferrari, della Maserati, la pista di Maranello e tutto il meglio che l’industria dell’auto italiana può offrire. Ma tutto questo è solo la conseguenza di un substrato culturale e artistico che vede nelle origini della città, nello sviluppo di un criterio unico, nella ricerca di uno stile unitario di vita e, quindi conseguentemente artistico, le basi di una cultura di elevato livello.
Non credo sia una casualità il lento e chiaro progredire di una mentalità, di un popolo che ha saputo riconoscere questo intento creativo e di pensiero unitario. Un popolo che ha saputo riconoscersi attorno ad un polo catalizzatore che, tempo addietro, ha visto il crescere di una città, di un luogo, di un contesto positivo e propositivo. Una unità stilistica che si è resa manifesta soprattutto nei primi secoli del Medioevo, in particolare nel periodo artisticamente definito Romanico dove il popolo si ritrovava rappresentato da opere che ne definivano l’immagine, lo specchio di vita. Come sottolineava Hans Sedlmayr nel suo “La perdita del centro” … certe civiltà superiori si esprimevano attraverso grandiose opere d’arte ispirate a soggetti sacri a guisa di potenze ordinatrici; lo stile unitario spiega anche l’incrollabile sicurezza stilistica del romanico che conosce, in sostanza, un unico tema: il duomo. Ciò che al di fuori di questa opera d’arte unitaria appare come arte è un riflesso della sfera sacra.
La realizzazione del Duomo risulta essere una sorta di pietra miliare di un’epoca attorno alla quale cresce e si articola un pullulare di attività, di opere, di modo di vivere che solo in quest’epoca risulta evidente.
Il duomo di Modena, il cui nome ufficiale è cattedrale di Santa Maria Assunta in Cielo e San Geminiano, è il principale luogo di culto della città di Modena, chiesa madre dell’arcidiocesi di Modena-Nonantola.
È un capolavoro dello stile romanico, è stato edificato dall’architetto Lanfranco nel sito del sepolcro di san Geminiano, patrono di Modena, dove in precedenza, a partire dal V secolo, erano state già erette due chiese. A fianco della cattedrale sorge la torre campanaria detta la Ghirlandina. Il duomo di Modena, con la Torre Civica e la Piazza Grande della città, è stato inserito dal 1997 nella lista dei siti italiani patrimonio dell’umanità dall’UNESCO e inserito nell’Itinerario Culturale del Consiglio d’Europa Transromanica.
Il popolo, che avvertiva la necessità di mettere mano a una nuova chiesa, approfittando anche dell’assenza del vescovo, decise di costruire una nuova grande cattedrale, cosicché quando il nuovo vescovo Dodone, nominato pur con qualche difficoltà da papa Urbano II, arrivò a Modena nel 1100 e riuscì a farsi accettare da tutti, trovò il cantiere del nuovo Duomo già aperto.
La decisione presa dal popolo, in piena indipendenza rispetto ai poteri imperiali ed ecclesiastici, è indicativa dell’aspirazione all’autogoverno e alla libertà dei modenesi. Del resto come buona e santa decisione del popolo medievale ogni opera era il frutto di una esigenza della gente, espressione di una necessità che prescindeva dalle decisioni politiche di pochi.
Il duomo così come le opere di interesse pubblico aveva una matrice comunitaria, unitaria, nella quale la gente stessa si riconosceva. Per tale motivo si partecipava attivamente alla costruzione: chi lo faceva mettendo a disposizione il denaro, chi l’aiuto manuale, chi attraverso offerte di cibo oppure ospitando le maestranze. Insomma era una vera e propria opera comune nella quale ognuno poteva dire: è mia. Il Duomo rappresenta dunque il simbolo della rivendicazione di autonomia e libertà di una comunità devota ma insofferente allo strapotere sia imperiale che ecclesiastico.
Una lapide murata all’esterno dell’abside maggiore riporta come data di fondazione della nuova cattedrale modenese il 26 maggio 1099, e indica anche il nome dell’architetto, Lanfranco, mastro ingenio clarurirus […] domactus et actaptus […] operis princeps huius rectorque magister (“famoso per ingegno, sapiente e esperto, direttore e maestro di questa costruzione”).
La nuova cattedrale, secondo il documento di poco successivo al 1106 della Relatio de innovatione ecclesie Sancti Geminiani fu fortemente voluta dalla popolazione quindi non solo dagli ecclesiastici al posto della precedente chiesa. A Lanfranco si dovette affiancare presto lo scultore Wiligelmo, ricordato da un’analoga lapide sul lato opposto della chiesa, il quale non solo lavorò assieme ai suoi allievi e seguaci alla decorazione scultorea della chiesa, ma forse si occupò anche dell’architettura, iniziando i lavori dalla facciata, mentre Lanfranco (o comunque un altro gruppo di lavoro) partì dalle absidi.
Per la costruzione del duomo vennero usati in parte materiali ricavati dai ruderi di edifici di epoca romana. Quando ormai le fondazioni avevano raggiunto la superficie del suolo, ci si accorse che i materiali raccolti non sarebbero bastati per l’intera costruzione, ma, come afferma il cronista Aimone, “per divina ispirazione” si cominciò a scavare poco lontano dal cantiere mettendo in luce inaspettatamente una necropoli romana ricca di pietre e di marmi che, levigati o scolpiti, vennero utilizzati nella costruzione dell’edificio.
I lavori edili andarono avanti alacremente, insieme alla demolizione di parti della vecchia cattedrale per fare posto alla nuova, cosicché nel 1106 la costruzione era già coperta e si poté traslare il corpo del Santo patrono da ciò che restava ancora della vecchia chiesa, dove era sepolto, alla cripta della nuova cattedrale.
Demolita poi completamente la vecchia cattedrale, i lavori continuarono ed entro il terzo decennio del XII secolo il lavoro dei successori di Lanfranco e Wiligelmo si era concluso. La facciata del 1099-1106 è a salienti che riflettono la forma interna delle navate, con tetti spioventi ad altezze diverse.
Numerosi rilievi, tra i quali i quattro celebri pannelli con le Storie della Genesi di Wiligelmo, decorano la facciata. Nelle raffigurazioni lapidee del Wiligelmo si riassume quella che veniva definita “realizzazione di un libro aperto”, accessibile, cioè, attraverso le immagini a tutti coloro che, non sapendo leggere, osservavano e comprendevano le sacre scritture.
Questi rilievi sono posti al di sopra dei portali laterali e a fianco di quello centrale, sono suddivisi in dodici parti, che vanno dalla rappresentazione di Dio in una mandorla fino al Diluvio Universale. Un’opera incredibile, segno di un’epoca, di una storia, di un pensiero vario e unico allo stesso tempo, ricco ed essenziale, un monumento degno di essere annoverato tra le più belle rappresentazioni dell’arte romanica.
Innocenzo Calzone
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