Accade spesso, purtroppo, e dunque non c’è da stupirsi se la trasposizione cinematografica non riesce a rendere compiutamente il senso delle parole scritte dall’autore. E’ il caso de “Il colibrì” (Premio Strega 2020) di Sandro Veronesi, arrivato sul grande e piccolo schermo con la regia di Francesca Archibugi. Il romanzo ha avuto un ottimo riscontro editoriale: 300 mila copie vendute e traduzione in 36 lingue. Dunque l’attesa era elevata ed evidentemente mal riposta perché la pellicola non sa rispondere alle richieste.
Nonostante la presenza di ottimi attori (su tutti il bravissimo Piefrancesco Favino che interpreta il protagonista, Marco Carrera), si ha la sensazione di un racconto slegato, troppo spezzettato in continui flashback che tolgono ritmo e continutà alla narrazione. Si passa, infatti, con eccessiva leggerezza dall’attualità alle situazioni legate all’infanzia, all’adolescenza, alla gioventù e alla prima maturità dei vari personaggi. La resa complessiva è un puzzle un po’ confuso che non rispecchia la tensione emotiva e i coinvolgimenti emozionali suscitati dal libro che La Nave di Teseo pubblicò proprio durante il primo lockdown, quasi che le mille traversie nella vita del dottor Carrera rappresentassero plasticamente ciò che tutti noi stavamo vivendo con il confinamento provocato dal Covid.
L’esistenza di Marco Carrera, oculista e padre di famiglia, scorre su binari apparentemente tranquilli, in realtà è irta di ostacoli, occasioni non colte e strade non prese. La moglie Marina (sul set Kasia Smutniak) tradisce il marito compulsivamente e lo accusa di avere una relazione con Luisa Lattes (interpretata dall’ottima Bérénice Bejo), una italo-francese conosciuta al mare in gioventù. E ha ragione, perché da sempre Marco intrattiene con Luisa un rapporto mai consumato, di quelli che la realtà non può contaminare ma che alimentano un desiderio ostinato e una passione segreta. Completano il quadro familiare Adele (figlia di Marco e Marina), il fratello Giacomo e due genitori eternamente in conflitto ma incapaci di vivere lontani.
Su tutti aleggia il ricordo della sorella Irene morta suicida a 24 anni. E questa è la prima tragedia a segnare profondamente la vita di Marco che aveva il compito, insieme a Giacomo, di sorvegliare a vista la ragazza. E invece lui, con i genitori a cena fuori, trascorre la serata con Luisa, mentre il fratello si ubriaca, accecato dalla gelosia. Poi muoiono uno dopo l’altro il padre e la madre, consumati dal cancro. Ma la vita continua anche quando Marina decide di andarsene, in preda ai suoi mille tormenti dell’anima e deve occuparsi di Adele, che diventa adulta e mamma: è incinta e partorisce la splendida Miraijin (senza rivelare il nome del padre), ma muore in un incidente. Bisogna ricominciare ancora: non c’è alcuna possibilità di fermarsi. Marco è nonno, padre e madre: vorrebbe volatilizzarsi, ma non può. Ricomincia anche a giocare, in modo sistematico e perverso durante lunghe nottate, con Miraijin (“l’uomo del futuro”) che dorme nella stanza accanto. In mezzo a loro Carrera fa proprio come il colibrì che, sbattendo forsennatamente le ali, consuma ogni energia per rimanere fermo allo stesso posto, mentre intorno il mondo e i rapporti inevitabilmente cambiano.
I ricordi e i dolori sono il fil rouge della vita di Marco con un punto ferno: Luisa Lattes e l’amore che mai verrà consumato e che mai si spegnerà per tutta la vita. A proteggerlo dagli urti più violenti (annunciati da telefonante provenienti da “numero sconosciuto”) trova Daniele Carradori (ben reso da Nanni Moretti), lo psicanalista di Marina, che insegna a Carrera come accogliere i cambi di rotta più inaspettati. Ma, mentre nel romanzo, Sandro Veronesi delinea con crescente e costante partecipazione gli eventi e il carattere dei personaggi, sullo schermo Francesca Archibugi si perde in troppi rivoli, il più delle volte sconnessi tra loro.
E’ indubbio che trasporre in immagini la forza delle parole non è opera semplice, ma con tantissimi bravi attori, non sarebbe stato impossibile. Il vero problema è rappresentato invece da una sceneggiatura (curata dalla stessa Archibugi e da Laura Paolucci e Francesco Piccolo) piuttosto carente e frammentaria nella ricostruzione. “Il colibrì” in versione cartacea è l’esaltazione della resilienza, nel film invece si ha quasi l’impressione che i personaggi subiscano passivamente la storia.
Sui titoli di coda del film, la cui colonna sonora è firmata da Battista Lena, una canzone inedita di Sergio Endrigo dal titolo “Caro amore lontanissimo”. Claudia Endrigo, figlia del grande cantautore istriano, ha voluto affidare il brano unicamente alla voce e alla sensibilità interpretativa di Marco Mengoni. E questa è una perla che avrebbe meritato migliore collocazione e non una abbastanza marginale. Ulteriore pecca di un film che tradisce gran parte delle attese e che comunque ha incassato al botteghino circa 3 milioni di euro.
Buona domenica.
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