PERUGIA – “Noi che ci odiammo, che passammo i nostri anni migliori nei campi di battaglia e dietro i reticolati dei campi di concentramento …”. Questo l’incipit dei manifesti affissi sui muri di Perugia a fine dicembre 1946 da un gruppo di giovani, alcuni partigiani, altri ex repubblichini o comunque fascisti. L’iniziativa partì dal partigiano della Brigata Garibaldi, Corrado Sassi e dal fascista, ex aderente alla Rsi, Bruno Cagnoli. Intorno a loro, sulla stessa lunghezza d’onda – che era quella di una riconciliazione generale che impedisse che gli italiani ricominciassero a scannarsi l’uno con l’altro – un gruppetto di ventenni o poco più. L’accordo venne raggiunto prima di Natale: consisteva nel portare, tutti insieme, una corona d’alloro al cippo dedicato ai Caduti di tutte le guerre del Cimitero Monumentale.
La concretizzazione dell’iniziativa venne fissata per l’alba del Capodanno 1947. Così alle 7 di mattina del primo gennaio partigiani e fascisti si ritrovarono – “Faceva un freddo cane”, raccontarono al cronista in tempi diversi sia Sassi, sia Mario Fettucciari, divenuto poi avvocato penalista – in piazza Piccinino. Da lì il gruppo eterogeneo attraverso via Bontempi e Porta Pesa s’incamminò verso il cimitero. Lungo la strada, al mesto ed infreddolito gruppetto, si aggregò un altro partigiano, Luigi De Florentis, che era stato commissario politico di una banda che aveva operato sulle montagne di Pietralunga. Fu proprio quest’ultimo a tenere, davanti al cippo commemorativo, un discorso a nome degli ex partigiani, mentre Fettucciari prese la parola in rappresentanza degli ex repubblichini. Finita la cerimonia i partecipanti rientrarono, sempre a piedi, in città, facendo il percorso, stavolta, in salita. Giornali e radio, anche a livello nazionale, diedero molto spazio all’evento, che tra l’altro, aiutò anche Alcide de Gasperi che pochi giorni più tardi volò negli Usa per convincere gli alleati a dare una mano al martoriato paese, ormai sulla via della pacificazione interna.
Firme importanti quali Mario Missiroli (Il Messaggero) e Pietro Ingrao (L’Unità) trattarono l’argomento della “pacificazione”, regalando un sigillo di portata storica all’evento. Anche se l’anarchico Tilli, in centro, sputò – con disprezzo, pur senza raggiungerlo – contro l’amico Corrado che se la “faceva coi fascisti”. Sassi si prese la rivincita quando uscì l’articolo di Ingrao titolato “Il Capodanno di Perugia”. Scriveva il dirigente comunista: “L’episodio di Perugia ha senza dubbio un significato che valica i confini dell’Umbria e investe un problema di importanza nazionale. Se ieri il problema fu quello di isolare i capi fascisti e di realizzare l’accordo unanime della Nazione per salvare l’Italia dalla rovina, oggi si pone il problema di legare alla nascente democrazia le più larghe masse, i lavoratori ed i cittadini di ogni villaggio, gli uomini venuti da diverse esperienze e diverse fedi e quindi anche quei giovani che hanno creduto nel fascismo, ma che ne hanno veduto il crollo, l’ignominia, l’errore”. Confidò Sassi, con un sorriso di soddisfazione, di essere rimasto al verde per comprare il maggior numero di copie per poi distribuirle in ogni rione della città. Quell’articolo dell’esponente comunista suonava come una sorta di rivincita per lui nei confronti di chi lo aveva criticato, chi più chi meno, aspramente, a sinistra.
Il 6 gennaio, giorno dell’Epifania, partigiani e fascisti, pubblicamente e davanti alle massime autorità cittadine, nella sala dei Notari, rinnovarono e sancirono il patto di riconciliazione e lo “sdoganamento” degli ex combattenti Rsi. “In nome della libertà e della democrazia”, rimarcò, molti anni più tardi, Sassi. “Pensavo, in quei momenti con gli occhi lucidi – spiegò al cronista – a Primo Ciabatti, mio amico e partigiano, che attese il plotone di esecuzione tedesco, con la pipa in bocca e a Ermanno Migliorini, mio amico, fucilato a Firenze dai partigiani…”. Ubaldo degli Azzi Vitelleschi, pubblicò il giorno dopo su “Il Nuovo Corriere”, una lunga cronaca sull’avvenimento del 6 gennaio a Palazzo dei Priori. Accanto alla bandiera tricolore, posta sopra il bancone di noce, venne sistemato anche un elmetto e poi un rametto di ulivo. Tra i relatori un reduce dai campi di concentramento in Germania, Mannocchio, l’ex repubblichino Cagnoli, il comunista Sassi, l’agostiniano padre Angelini, il sindaco Ugo Lupattelli, il partigiano e magistrato Giorgio Battistacci, il sottotenente Germini, scampato ad un campo di prigionia, Lello Rossi (Pci, poi senatore), ancora Nucci, Sergio Angelini, democristiano, Francesco Innamorati (PCI), Fettucciari, Ciccardini, il prefetto Luigi Peano e l’arcivescovo Mario Vianello.
Alla fine venne letto l’appello ai giovani italiani: “E’ tempo – recitava tra l’altro il documento – che cada quella barriera che ci divide, è tempo che usciamo dalle opposte trincee e ci ritroviamo fratelli… ”. Ed ancora: “Poiché in questa terra martoriata e discorde troppo spesso sono risuonate parole di odio e di vendetta noi dobbiamo ora comprendere che solo la concordia potrà giovare alla Patria ed ai suoi figli: uniti ricostruiremo, insieme faremo qualcosa di buono. Viva l’Italia”. Sassi scrisse e pubblicò, negli anni Novanta, un libro sulla sua esperienza partigiana, in cui definiva “Perduto”, il Capodanno di Perugia, perché quell’esempio non venne, concretamente e pienamente raccolto negli anni successivi. Tuttavia quelle parole nobili e sentite, anche perché pronunciate, nella Sala dei Notari, quando ancora il sangue dei morti era fresco, dovremmo, forse, ripeterle, senza retorica e con cuore sincero, e dando loro piena attuazione, pure oggi ai tempi del Coronavirus, che si è abbattuto come uno tsunami sull’Italia e sul mondo. Solo con una nuova unione di intenti i giovani – e con loro il paese tutto – potranno sperare in un futuro migliore.
Elio Clero Bertoldi
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