ROMA – “Fu Raffaello persona molto amorosa ed affezionata alle donne e di continuo prestò ai servigi loro”. Giorgio Vasari, con una complice strizzatina d’occhio, rivela un particolare singolare della vita del grande pittore di Urbino, morto ancora giovane (37 anni: era nato il 6 aprile del 1483, spirato nel 1520, nello stesso giorno, un venerdì santo) proprio – questa la vulgata – per “eccessi amorosi”. Insomma, uno che la vita se la godeva appieno, sebbene abbia chiesto prima del trapasso – per guadagnarsi, all’ultimo tuffo, il perdono divino? – che i suoi resti mortali venissero rivestiti con un ruvido saio da frate e che, sulla parete, alle spalle del suo letto, avesse fatto posizionare il grande quadro della Trasfigurazione, sua ultima opera commissionatagli da Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII.
Di questa passione (o ossessione?) erotica dell’artista non si hanno notizie e documenti né durante il suo soggiorno perugino e tifernate (ma era abbastanza giovane, allora: il Vasari lo dice già nel 1491 allievo del Perugino), né nel periodo fiorentino (1504-1508). Fu a Roma – dove approdò verso la fine del 1508 – che le sue, evidentemente pressanti, voglie sessuali presero corpo o, se si vuole, esplosero in modo virulento. Da una lettera inviata dall’artista allo zio Simone Ciarle (fratello della madre, Magia, che lo lasciò orfano a soli 8 anni) e da un brano del Vasari, risulta certo che il pittore ebbe nella città eterna una promessa sposa: Maria Dovizi, figlia di Antonio e nipote di Bernardo Dovizi, cioè “il cardinal Bibbiena”, potente protettore oltre che prezioso e prodigo committente dell’urbinate. Quest’ultimo, che comunque aveva pronunciato in forma solenne la promessa di matrimonio, non pare fosse particolarmente bramoso di celebrare queste nozze. Non è noto se a frenarlo fosse la giovane età della fidanzata o se ritenesse la ragazza non particolarmente attraente. Raffaello, a forza di giustificazioni, tirò la situazione per le lunghe, fino a quando la giovane, evidentemente di fragile costituzione, spirò (nel 1514), nel palazzo di famiglia in via dei Leutari e risolse i dubbi e le riserve dell’artista, che forse tirò un respiro di sollievo: si era salvato da una unione non desiderata e aveva mantenuto l’amicizia con l’influente cardinale.
L’urbinate si presentava con un’aria dolce, quasi romantica, un volto bello, liscio ed elegante (“grazioso”, l’aggettivo che usa il Vasari), capelli castani lunghi sino alle spalle, modi signorili (come da autoritratto del 1504-1506, esposto della Galleria degli Uffizi), appresi alla corte dei Montefeltro dove era cresciuto e dove il padre, Giovanni Santi, pittore pure lui ed umanista, aveva libero accesso assieme al figlioletto. Nel 1511, nell’affresco della Scuola d’Atene, Stanza della Segnatura in Vaticano, il pittore si raffigurò in maniera del tutto identica. “Visse come un principe”, rimarcò il Vasari a sottolinearne l’eleganza e l’aristocratica prodigalità. Dopo i trenta anni, invece, Raffaello s’incorniciò il volto con baffi e barba (autoritratto con un amico, del 1518-1519, ospitato al Louvre). Comprensibile che affascinante, celebre, facoltoso quale era, le donne, patrizie e popolane, gli cadessero ai piedi. Di un’altra “fiamma” conosciamo, sempre da una missiva di Raffaello, il nome: Mamola. I familiari della concupita avrebbero offerto all’artista, a patto che la portasse all’altare, una dote di 3.000 scudi… Neppure questa “liaison” tuttavia, andò a buon fine: l’urbinate restò scapolo. E continuò a mietere cuori e… corpi.
La più nota e conosciuta delle spasimanti (o conquiste) del pittore resta comunque l’ultima: la Fornarina, al secolo Margherita Luti, figlia di un fornaio, di nome Francesco e di origine senese. Pare che Raffaello fosse così preso – innamorato cotto, si direbbe oggi – da pretendere che l’amata (con la quale aveva allacciato una relazione forse fin dai tempi in cui era viva Maria) alloggiasse con lui nel palazzo in cui stava dipingendo la grande tela della Trasfigurazione. Lo accontentarono. La tradizione descrive Margherita come mora, formosa, flessuosa. Alcuni sostengono che Raffaello l’avesse persino sposata, sia pure in gran segreto. Ma in questo caso non si capisce perché, durante il periodo della malattia (otto giorni durarono le “febbri maligne”), poi rivelatasi letale, la procace popolana fosse stata bruscamente allontanata dal capezzale del suo uomo. Di Margherita ci resta il ritratto, dal titolo La Fornarina. Occhi grandi e vivissimi, chioma nera con scriminatura centrale, un elegante turbante in testa e un monile tra i capelli, la modella – praticamente nuda dalla cintola in su – si tocca il turgido seno sinistro con la mano destra. Immagine serena, ma carnale, sensuale (dipinta nel 1519-1520). A questa tela – nell’esposizione, ancora aperta, giorno e notte in questo periodo, alle Scuderie del Quirinale a Roma – è stata opportunamente affiancata, ad angolo, La Velata, così da permettere una comoda comparazione. Secondo diversi critici d’arte (anche se non tutti sono d’accordo con questa tesi) si tratterebbe ancora di Margherita.
Non mancano, in effetti, particolari analoghi tra i due ritratti: l’ovale del volto, la stessa scriminatura della chioma, un identico monile tra i capelli, coperti in parte da un lungo velo, la bocca serrata, la mossa della mano anche in questo caso appoggiata al petto, a sinistra. Qui, però, il seno è del tutto coperto. Pertanto la rappresentazione (datata 1512-1513) appare più composta, più solenne, una sorta – semmai – di amor sacro, rispetto all’amor profano suggerito dalla composizione de La Fornarina. Nelle sale sono ospitati anche altri ritratti e corpi interi, nudi o vestiti, a disegno, di donne e modelle. Altre conquiste di Raffaello, instancabile amatore?
Nonostante questo “neo” (tuttavia a quei tempi – non suoni a giustificazione – non soltanto i cardinali, ma persino i papi, ospitavano tra le mura domestiche, di nascosto o pubblicamente, le loro concubine), i resti di Raffaello furono tumulati, con fastosi funerali, nel Pantheon, primo pittore a ricevere un onore del genere. Tutta Roma, incredula, dolente, sconvolta, sgomenta per la morte dell’artista, partecipò all’affollata cerimonia, immortalata persino su diverse tele da artisti italiani e stranieri. E l’umanista principe del periodo, Pietro Bembo (o, in altre ipotesi, Antonio Tibaldeo, altrettanto famoso), gli dedicò l’epitaffio in latino che, tradotto, recita: “Qui è quel Raffaello, dal quale la natura credette di essere vinta, quando era vivo, e di morire, quando egli moriva”.
Elio Clero Bertoldi
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