ROMA – La mostra aperta fino al giugno prossimo nei Musei Capitolini, “I marmi Torlonia. Collezionare capolavori”, espone gran parte dei celeberrimi marmi della nobile famiglia Torlonia, istituita nel tardo Ottocento da Alessandro Torlonia a via della Lungara. Non tutti sanno che tali opere d’arte corsero nel recente passato un bel rischio (furono raggruppati in unico ambiente, per ricavare dei proficui appartamenti): ma ci fu di peggio. A ricordarci ciò è stata la delicata piccola “Fanciulla di Vulci”, esposta nella mostra. Vulci, e in particolare la necropoli di Ponte Rotto, è stata doviziosa di ritrovamenti archeologici, e valga fra tutti la straordinaria Tomba François, i cui potenti affreschi parietali del secolo IV a.C, su miti greci e lotte fra etruschi e romani, passarono alla collezione di Villa Albani.
Ma ecco la dolorosa vicenda. Nel 1846, Alexandrine de Blechamp, Principessa della Tuscia e moglie di Luciano Bonaparte, principe di Canino – che amava l’arte come suo fratello Napoleone – avviò scavi archeologici nella sua proprietà di Vulci. Ne emersero due sarcofagi integri, sul cui coperchio era ed è incisa l’iscrizione della famiglia etrusca dei Tetnies, risalente al 330-300 avanti Cristo. La straordinaria scoperta della coppia di coniugi, resa ad altorilievo sui coperchi dei sarcofagi in affettuoso abbraccio sotto il lenzuolo, con sentimento della vita quotidiana tutto etrusco, evidenziava l’eccellente tecnica ellenistica del velo coi corpi in trasparenza, indi – nel sarcofago in nenfro del pater familias e di sua moglie – la tristezza dell’età avanzata; mentre nel secondo più prezioso sarcofago in alabastro, era rappresentato il figlio di lui con la sua sposa, e dettagli perfetti indicavano la giovinezza e l’attrazione fisica dell’amore.
Alexandrine nel 1855 morì, avendo tentato invano (voleva ricavarne di più) di vendere allo Stato italiano le due opere, che comunque rimasero vincolate. Ma nel 1859 la tutrice di sua figlia Luciana, ereditiera del bene, ossia la sorella Maria Bonaparte Valentini, vendette senza scrupoli né problemi i sarcofagi ai collezionisti J.J.Jarvis e G.Maquay di Firenze. Muto, a quanto se ne sa, lo Stato italiano. E costoro nel 1883 prestarono i due rari pezzi archeologici, per una mostra interazionale, al Museo di Belle Arti di Boston: qui ben presto, nel 1886, il museo (ahimè) riuscì ad acquistare i due capolavori. Senza colpo ferire. Fu l’ultimo passaggio, quello definitivo. Un pezzo dell’Italia, che aveva ancora sapore d’Italia e del suo senso della famiglia, ci sfuggiva per sempre. Fosse esso passato ai Torlonia, ora sarebbe ancora qui. Ma a noi non rimane che deplorare l’arbitrio dei Napoleonidi, dispotici soprattutto con i nostri tesori artistici.
Paola Pariset
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