FARA SABINA (Rieti) – Si sbaglia chi pensava che i Sabini fossero solo quelli cui i Romani avevano rapito le donne per poter avere una progenie. E poi, altro che provinciali, come si ritiene oggi rispetto ai residenti nella Capitale. Questa popolazione, la cui area di insediamento al confine con Etruschi e Falisci, nell’odierna provincia di Rieti e nella confinante regione dell’alto Aterno in Abruzzo, in realtà ha molto di più da raccontare, oltre al fatidico “ratto”. Per esempio che, quando quel famoso rapimento fu compiuto e Roma era poco più che un villaggio di pastori, invece essa aveva una civiltà organizzata, con una cultura funeraria e un artigianato raffinatissimo. I suoi centri abitati erano molto grandi, le case incredibilmente confortevoli per quei tempi e disponevano di oggetti di fattura locale ma anche provenienti dal commercio con l’estero. Per esempio dalla Grecia o da Cartagine, attraverso il mare, o dall’Etruria, attraverso il Tevere o la via Salaria.
Si sa anche che i Sabini avevano, nella figura del Re, un personaggio molto onorato al quale tributavano sacrifici, dimostrando che quella società era già molto complessa. Questo popolo era già nella storia – cioè usava la scrittura – quando “Roma caput mundi” non era ancora neanche nei sogni dei suoi fondatori e il suo territorio era abitato da un gruppuscolo di uomini primitivi che vivevano al limite della sopravvivenza. Nel giorno in cui il leggendario Romolo scavò la famosa fossa per posare la prima pietra di quella che sarebbe stata l’Urbs, nel 753 a.C., dei Sabini si dice invece che già fossero un popolo molto rispettato per la sua serietà. Cicerone riporta nel I secolo a.C. un aneddoto secondo cui a Roma, per guadagnarsi il consenso e la stima, fosse frequente, appunto, fingersi sabini. Dionigi di Alicarnasso nello stesso periodo ricorda che al tempo della fondazione di Roma i Sabini apprezzavano già le raffinatezze etrusche e Strabone, a distanza di un secolo, ne parla come di “una razza di uomini autoctoni e antichissimi”.
Eppure sui testi scolastici vengono descritti sbrigativamente solo come un popolo alle porte di Roma, liquidati in poche righe di una pagina, quel tanto che basti a raccontare quel famoso “ratto”, dopo il quale si è sempre pensato che i Sabini si fossero eclissati, non senza aver lasciato il loro Dna nel sangue dei più fortunati confinanti, che devono proprio a loro se hanno una progenie.
Da quell’episodio in poi si conoscono solo le imprese di questi ultimi – i Romani, appunto – che, invece, per assoggettare i Sabini ci misero ancora circa quattro secoli. Una civiltà di tutto rispetto, quindi, che è possibile conoscere e della quale si può rimanere stupiti nel museo archeologico di Fara Sabina (Rieti). Le sue teche, nel rinascimentale Palazzo Brancaleoni, custodiscono preziosi reperti che riscattano i Sabini dal ruolo di popolo “cuscinetto” dei Romani e restituiscono dignità a questa bellissima civiltà completando la conoscenza di un periodo storico in cui l’astro di Roma ha offuscato tutto ciò che le stava intorno.
Il materiale scoperto a Cures, uno dei centri più importanti di questo territorio, ha permesso di ricostruire la vita quotidiana dei Sabini. La cosiddetta “capanna” emersa dagli scavi, ricostruita fedelmente in un plastico, con le sue suppellettili ha fatto emergere un fatto importante: che nell’VIII secolo, famoso per essere quello delle origini di Roma, i Sabini avevano già una casa con tegole, due vani di cui uno adibito a cucina con tanto di forno per la cottura di alimenti, e l’altro adibito alle altre attività domestiche tra cui la tessitura. Capanne così a Cures dovevano essere tante visto che l’estensione di questo centro si aggirava sui 30 ettari. E da Cures proviene il pezzo più emozionante dell’esposizione: il cippo che da essa prende il nome, un frammento di epigrafe della fine del VI secolo a.C., che attesta l’uso precoce della scrittura, decifrata solo in parte. I caratteri ricordano l’alfabeto greco, fenicio ed etrusco ma non riescono a mascherare il tentativo di cercare soluzioni locali.
Nel museo si trovano anche reperti di Eretum (XI-VII secolo), emersa dagli scavi a Colle del Forno presso Montelibretti. Secondo gli archeologi, mentre Cures era la zona dedicata alla vita, questa grandissima area con le sue tombe era divisa dal centro abitato perché riservata alla morte. I suoi resti fanno pensare ad una raffinatissima cultura funebre ma soprattutto all’importanza di questo sito nel territorio sabino.
Una tomba in particolare, la n. 36, conferma la centralità di questa necropoli: per le sue dimensioni (solo il corridoio è di 26 metri), per la presenza di armi e di contenitori per il vino e gli alimenti nonché di un’urna funeraria con le ceneri contenute in un panno ricamato in oro ma, soprattutto, per il pezzo più prezioso di questa tomba, esposto nel museo di Fara Sabina. Si tratta di un magnifico trono, di fattura elegante e interamente conservato, che identifica questa come la tomba del sovrano di questo regno italico.
Il reperto, in una teca di vetro all’interno di una sala dedicata, la cui illuminazione ne esalta la bellezza, è il fiore all’occhiello dello splendido borgo, arroccato su una collina di 482 metri, da cui si gode un panorama mozzafiato. Alla collezione si aggiungerà presto anche il carro del re, che era custodito nella stessa tomba e che fino ad ottobre sarà esposto nel museo archeologico di Rieti ma poi tornerà nella sua sede naturale a completare il profilo di questo sovrano e a raccontarci una storia che altrimenti non avremmo mai saputo.
Per conoscerla tutta e bene, collegando molti fili rimasti in sospeso, bisogna assolutamente visitare il museo di Fara Sabina, piazza del Duomo, 3 (apertura venerdi, sabato e domenica dalle 10 alle 18). Sarà un salto indietro nel tempo che non potrà lasciare indifferenti.
Gloria Zarletti
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