ROMA – Di sinonimi ce ne sono tanti e anche di aggettivi, espressioni, che ne addolciscono la natura selvaggia e violenta. Ma la guerra, che sia “giusta” o di “mantenimento” come quella dei romani, “santa” come quella degli islamici o dei cristiani nel Medioevo, che sia finalizzata ad una “missione di pace” o a ripristinare la “democrazia” in tempi moderni o, ancora, che sia “uno scontro di civiltà”, è sempre guerra. Ed essa non è mai positiva perché chiunque sia il vincitore porta con sé morte, sofferenza, fame, distruzione di territori e case, povertà e malattie. Però l’uomo vi è ricorso sempre.
Ci sono testimonianze che già 10mila anni fa la violenza umana era capace di fare stragi. A Nataruk, in Kenya, gli scheletri di un gruppo di cacciatori evidenziano fratture ossee attribuibili ad un eccidio tra tribù. Il motivo probabilmente è sempre quello, se si va a cercare proprio in fondo: la presunzione di superiorità. Eppure anche questa sensazione, del tutto umana, non è primaria ma è una conseguenza. La psicologa americana Brenè Brown, nel suo libro “Osare in grande” dimostra, attraverso esempi tratti dalla sua stessa vita e casi incontrati nella sua professione, che la maggior parte dei nostri comportamenti scaturisce dalla vergogna di mostrarsi vulnerabili. La Brown, psicologa, ricercatrice, conduttrice di podcast, ne parla come di una epidemia subdola da cui possono scaturire molte deviazioni del comportamento qualora essa non venga riconosciuta. Il naturale decorso della vergogna, infatti, è la rabbia che ne scaturisce e la tentazione di eliminare o fare del male alle persone nei confronti delle quali temiamo di mostrarci vulnerabili.
Brenè Brown non ha scoperto nulla di nuovo, ma è una divulgatrice eccezionale ed ha aiutato moltissime persone a comprendere la causa della propria infelicità. E così con il suo lavoro contribuisce a far “sbollire” la violenza di potenziali omicidi, femminicidi, killer o anche semplicemente persone compresse, chiuse in se stesse, tristi. I Greci avevano già intuito qualcosa di tutto ciò e parlavano della loro come della “civiltà della vergogna” che vedeva nella vendetta l’unica medicina utile a “ripristinare” un orgoglio ferito. Per loro la vendetta era la legge, l’unica che avessero. Per questo erano un popolo di grandi combattenti. Non a caso, per il rapimento di Elena da parte di Paride ci scappò una guerra che portò alla distruzione di Troia.
I Romani non furono da meno: parlavano di guerra “giusta” a proposito di quella con Cartagine con la scusa che Didone aveva maledetto il fedifrago Enea con tutti i suoi discendenti. Leggende, è vero. Ma spiegano delle verità. La vergogna di essere “da meno” appare quasi sempre come la causa di violenza verso gli altri. Anche il bullismo si spiega così. Il bullo che picchia e perseguita i suoi compagni è un ragazzo fragile che ha bisogno di gesti forti per credere in se stesso. L’uomo uccide la sua ex perché si vergogna davanti agli altri di essere stato lasciato, di essere fragile. E quindi, in scala maggiore, anche la guerra che è dimostrazione di superiorità nei confronti dei popoli conquistati (si chiama nazionalismo), che si esprime con una propaganda volta a screditare (e svergognare), l’avversario, che intende distruggerlo perché potrebbe indebolire l’immagine del conquistatore, si spiega così: con l’incapacità di ammettere di essere vulnerabili e non onnipotenti, con la rabbia che scaturisce da questa sensazione e dal non saperla riconoscere e controllare.
La guerra è una menzogna dietro alla quale si nasconde il senso di inferiorità di un popolo o di un uomo solo al potere. Questa è la verità che si nasconde dietro la storia, dietro il progresso che è scaturito dalle conquiste. Tra i bagliori dell’impero romano, di cui non saremmo tuttavia capaci di negare la grandezza, risuonano le parole di Calcago, il capo della tribù dei “barbari” Caledoni pronti a resistere all’attacco finale degli eserciti “civilizzatori” sulle scogliere della Scozia: “Là dove fanno il deserto lo chiamano pace”. Frase divenuta famosa per spiegare la grande bugia insita nella storia e nella propaganda. Non c’è “casus belli” che tenga: la guerra – con qualsiasi nome essa venga chiamata – è sempre un pretesto e non può essere giustificata. Nemmeno oggi.
Gloria Zarletti
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