Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che si vuol comprare la Groenlandia mi riporta alla mente, anche se a parti invertite, il famoso film del 1961 “Totò truffa 62” durante il quale il grande comico napoletano vende Fontana di Trevi a un incauto e ricchissimo turista italo-americano.
E’ di questi giorni la proposta del presidente americano che senza pudore chiede alla Norvegia di acquistare la terra dei ghiacci. Nel caso più attuale, fortunatamente, la premier di Copenhagen, Mette Frederiksen, risponde picche al leader più potente del mondo definendo assurda la sua proposta. E Trump, offeso per cotanta superbia, annulla la sua visita del 2 e 3 settembre in terra danese.
Scendiamo più a sud e in Brasile vediamo la foresta pluviale amazzonica, polmone verde dell’intero pianeta, che brucia. Migliaia di ettari del patrimonio vegetale e arboreo più importante per l’umanità che vanno in fumo. E il presidente dello Stato brasileiro, da poco eletto, Jair Bolsonaro, che di fronte allo sgomento del mondo intero e alle offerte di aiuto giuntegli da ogni angolo della Terra risponde stizzito, definendo questa ondata di preoccupazione “un’intromissione negli affari interni del Brasile” rimarcando inoltre quella che secondo lui è la volontà da parte di Paesi stranieri di intaccare la sovranità brasiliana sull’Amazzonia”.
Diciamolo subito, perché da una parte la Groenlandia e dall’altra la foresta amazzonica?
Nel primo caso secondo le stime degli scienziati quest’anno la calotta glaciale dell’isola più grande del mondo perderà 440 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Il sintomo di una catastrofe climatica che sta trasformando l’Artico in una regione assai appetibile per i commerci globali. Sotto quella spessa coltre bianca giacciono grandi quantità di terre rare nonché petrolio. E non basta. Con lo scioglimento sempre più veloce dei ghiacci l’Artico diventerà uno dei luoghi più strategici del pianeta. La Groenlandia è il punto di appoggio più vicino. Nei prossimi anni gli effetti del riscaldamento globale apriranno nuove rotte nell’oceano Artico, e l’area si trasformerà in qualcosa che può essere paragonato al canale di Suez, punto nevralgico per i trasporti e i commerci tra Asia, Europa e continente Americano. E su quei ghiacci (anzi, su quella terra visto come stanno andando le cose) hanno già da tempo messo gli occhi anche la Cina e la Russia.
Da due settimane brucia la grande foresta tropicale, il polmone verde della terra che produce il 20% dell’ossigeno e il 10% della biodiversità mondiale. Circa 75 mila eventi incendiari sono stati registrati nel corso del 2019 nella foresta pluviale amazzonica, un numero record, quasi il doppio rispetto al numero di incendi nello stesso periodo del 2018, che hanno mandato in fumo 225 mila ettari di foresta, anche questo un dato senza precedenti, il triplo rispetto a quelli del luglio 2018. La foresta pluviale amazzonica, che rimane umida, zuppa di acqua per gran parte dell’anno, non brucia naturalmente. Gli incendi – come hanno testimoniato le istituzioni di ricerca e le organizzazioni non governative che operano in Amazzonia – sono intenzionali. La responsabilità è addebitata agli agricoltori e alle grandi imprese zootecniche e agro-industriali, che usano il metodo “taglia e brucia” per liberare la terra, non solo dalla vegetazione, ma anche dalle popolazioni locali e indigene. Favoriti, in questo – accuse che giungono dall’interno del Brasile ma anche dall’estero – dalla politica di Bolsonaro (da molti definito Bolsonerone) più vicina agli interessi speculativi e, fino a poco tempo fa illegali, del mondo agricolo e agli allevatori.
Insomma c’è qualche potente del mondo che se ne frega dei problemi ambientali che ormai ci assillano da vicino, molto da vicino e dimostrano che si tratta di una crisi ambientale senza precedenti e senza confini. E altri loro colleghi non fanno abbastanza per contrastarli in questa politica suicida. E se prima gli scienziati parlavano di situazione critica e senza ritorno entro un secolo, adesso c’è chi abbrevia il tempo che ci divide da questa linea. E’ finito il tempo delle parole, bisogna passare ai fatti.
Io non ci credo ma ci spero.
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