PERUGIA – Dall’aria di vetro delle vette di Leggiuno e delle Alpi del varesotto alla brezza di mare mite e carica di profumi di Cagliari e della Sardegna. Aveva optato per una nuova vita, Luigi Riva (1944-2024), detto Gigirriva, con due erre, alla sarda, o meglio ancora “Rombo di tuono”, il nomignolo che gli aveva affibbiato Gianni Brera, suo conterraneo lombardo e re del giornalismo sportivo. Il grande campione, dal sinistro formidabile ed infallibile, si è spento nella carne, in ospedale, tradito dal muscolo cardiaco, non certo nello spirito: i miti non muoiono mai. Rimangono, indelebili, nella memoria dei singoli e dei popoli. E Gigi – il volto maschio, scavato quasi nella pietra – vantava tutti i tratti degli antichi eroi della mitologia.
A cominciare dai record: miglior bomber assoluto della nazionale italiana (35 gol in 42 partite), il titolo di campione d’Europa, di vicecampione del mondo, lo scudetto del 1969-70 conquistato col Cagliari, una provinciale a dispetto ed a scorno dei club potenti e ricchi. Anche sotto questo profilo portava, Riva, i crismi del semidio: non si era fatto incantare dalle sirene del Bologna e dalle lusinghe, irresistibili per i più, della Juventus di Gianni Agnelli (il quale aveva gettato sul piatto della trattativa un contratto da favola, non bruscolini, per portarselo a Torino, più due miliardi e tre giocatori alla società rossoblu). No, lui aveva preferito rimanere nell’isola (dove era sbarcato nel 1963, controvoglia), tra i tifosi, i sostenitori e gli amici coi quali aveva ben presto legato, per empatia, nella sua nuova patria adottiva.
D’altronde Leggiuno ed il continente, più in generale, gli rammentavano gli anni duri della povertà, del collegio di religiosi da cui continuava a fuggire (tre volte) e, più ancora, la morte crudele e prematura del padre Ugo (quando Gigi aveva 9 anni) per un infortunio sul lavoro e della madre Edis (un settennio dopo). Del nucleo familiare gli era rimasta solo la sorella maggiore, Fausta, voluta al suo fianco nel trasferimento sulla terra dei nuraghi, dei pastori, dei mamuthones. La città e la maglia con le quali era esploso e dove, mentore Manlio Scopigno, reatino (una dozzina di anni prima della conquista del titolo italiano, allenatore del Todi, squadra di dilettanti) aveva toccato vertici immensi. Bandiera e simbolo, di quel Cagliari. Un eroe fragile, non solo nei ginocchi “saltati” ed i muscoli snervati per l’usura ed i colpi impietosi degli avversari.
Timido, riservato, forse taciturno, ma con uno spirito fermo, solido. Da filosofo. Quell’esprit che gli aveva fatto anteporre gli affetti ai soldi, i legami sentimentali a Mammona ed al facile successo. Ricorda, in questa meritoria opzione, l’Ercole al bivio di Prodico di Ceo, di cui racconta Senofonte, l’allievo di Socrate, nei “Mirabilia”. Ad una biforcazione della strada il muscoloso semidio, dalla clava sempre in pugno, si era imbattuto in due donne, entrambe bellissime: una vestita e composta gli indicava la via della virtù, irta di asprezze e di difficoltà; l’altra, suadente e discinta, la strada diretta e piana della voluttà, dei piaceri, della ricchezza. Ercole – e Gigirriva, con lui – imboccò il percorso della gloria, nonostante i pericoli ed i sacrifici, che il cammino comporta. Orgoglio e difesa della propria immagine, non per superbia, ma per dignità: rifiutò le candidature in politica sia di destra, sia di sinistra e anche l’invito di Zeffirelli di prender parte ad un film.
Certo anche Gigi – da umano – coltivava le sue passioni: le sigarette sempre tra le labbra (vizio condiviso con i compagni quali Boninsegna ed Albertosi, oltre che con mister Scopigno), le belle donne (Gianna Tafanari, la compagna dello scandalo per i benpensanti, la “Dama bionda”, gli ha dato due figli: Nicola e Mauro, che a loro volta lo hanno reso nonno di cinque nipoti), le auto sportive, come la Dino Ferrari, scoperta, che spingeva a tutto gas – narrano – per gustarne la velocità ed il rombo – toh, anche qui – del motore.
E tuttavia la sua scelta di restare a Cagliari, testimonia la profonda forza morale dell’uomo. L’onestà con se stesso e con gli altri. La nobiltà e l’autorevolezza. E non perché come Giulio Cesare preferiva essere “primo in un paese delle Gallie, che secondo a Roma”, ma perché gli garbava, per propensione connaturata, porsi dalla parte dei più deboli, degli ultimi: il gruppo a cui sentiva di appartenere, per nascita e per comune sensibilità. È il motivo per cui, non soltanto (e già sarebbe più che giusto) per le prodezze profuse nel gioco della dea Eupalla, brillerà – per mutuare il titolo del film sulla sua vicenda umana e sportiva – “Nel nostro cielo un Rombo di tuono”.
Elio Clero Bertoldi
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