Se avesse potuto, avrebbe sicuramente scelto questo periodo: niente funerali pubblici, niente elogi in chiesa (sempre ammesso che avesse accettato un rito funebre ecclesiastico). Solo il silenzio e il ricordo di chi lo ha conosciuto davvero. Gianni Mura se ne è andato il primo giorno di primavera per un attacco cardiaco, mentre era ricoverato a Senigallia per curare una brutta polmonite da fumo, nulla a che fare col coronavirus. Giornalista di valore? Sicuramente di livello assoluto, ma usare il termine giornalista per uno come lui è assai riduttivo. Piuttosto un cantore di sport e della vita.
Amava e scriveva di buon cibo e di buon vino. Certo, frequentava i grandi ristoranti e seguiva gli chef alla moda, ma preferiva di gran lunga le trattorie, “spina dorsale di questo Paese”; invitava a ignorare le guide, i falsi profeti dei fornelli, trip advisor; puntava sulla cultura materiale del territorio e affondava i colpi senza pietà verso la moda di fotografare i piatti. Soleva ripetere che non c’è bisogno di un grande cuoco per cucinare bene: basta scegliere gli ingredienti giusti e il piatto sarà naturalmente buono. Accompagnato da un vino adeguato, preferibilmente rosso. Tra i tanti aneddoti legati alle sue mille peripezie gastronomiche in ogni angolo del mondo, si racconta che una delle cose che lo faceva più arrabbiare (accadeva di rado, comunque) era la tesi secondo la quale col pesce ci vanno solo i bianchi. E lui stava lì per ore a spiegare perché quella teoria era sbagliata e quali vini abbinare con una spigola all’acquapazza o con un branzino al sale. Insieme alla moglie Paola curava per il Venerdì di Repubblica la rubrica “Mangia & Bevi”; in realtà, non sempre la compagna lo seguiva nei suoi tour a caccia di locali da segnalare, ma c’erano tante “Paola” (amici o colleghi) in tutta Italia che invitava a pranzo o a cena e ai quali chiedeva sempre un parere (del quale teneva conto) su quello avevano mangiato. Quelle trenta righe del pezzo molto spesso erano dedicati ad uno sperduto e sconosciuto localetto di un paesino dove aveva mangiato semplicemente pasta e fagioli. Si segnava tutto su dei quadernetti da quattro soldi e al momento giusto tirava fuori la recensione.
Un’altra sua grande passione al di fuori della professione era la musica che aveva conosciuto sin da piccolo quando nella caserma dove lavorava il padre maresciallo aveva sentito due carabinieri che cantavano “Calabresella” e “La bela Gigogin”. Ai tempi del liceo aveva scoperto Jacques Brel, George Brassens, Sergio Endrigo, Luigi Tenco. Gianni Mura era un’autentica enciclopedia della canzone d’autore: conosceva a memoria i testi delle canzoni di tutti i festival di Sanremo e attraverso la musica divenne amico di Giovanna Marini, Riki Gianco, Enzo Jannacci, Enzo Bearzot (il ct dell’Italia che portò a vincere il Mondiale nel 1982 e che adorava il jazz), Maria Carta ed Elena Ledda. Cantava (male, anzi malissimo) le canzoni di Jacques Brel tradotte da Duilio del Prete.
Amava e scriveva di calcio e di ciclismo (soprattutto l’amatissimo Tour de France). Di entrambi questi sport scriveva con passione e competenza, ma senza mai metterlo in evidenza. Tifava segretamente per l’Inter, ma “fino alla cessione di Angelillo. Ora non sono più interessato, anche se mi riservo la possibilità di appassionarmi alle squadre minori. Mi piace l’Atalanta”. I suoi campioni preferiti? Mennea, Sara Simeoni, Riva e Scirea. Detestava cordialmente Mourinho e non gli piacevano tanto i campioni attuali perché “i giocatori di oggi sono inavvicinabili e, se li avvicini, ti dicono tre banalità”. In generale pensava che “lo sport avrà tanti difetti, ma a differenza della vita nello sport non basta sembrare, bisogna essere”. Ma era il ciclismo la sua più grande passione.
Sulle pagine sportive di Repubblica ha scritto articoli memorabili sulla Grande Boucle. Indimenticabile quello dedicato a Fabio Casartelli, il corridore venticinquenne che morì in seguito a una caduta lungo la discesa del Colle di Portet-d’Aspet il 18 luglio 1995. Talvolta delle 50 righe che il giornale gli chiedeva sulla tappa, ne riservava al massimo una ventina alla cronaca nuda e cruda, il resto era magari dedicato ad un’osteria dove la sera precedente aveva mangiato rognone d’agnello. In ogni squadra aveva un informatore: non il capitano, ma un gregario qualsiasi; ma le sue principali fonti di informazione erano gli autisti al seguito della corsa con i quali coltivava amicizie che andavano al di là dei fatti professionali. Erano loro spesso le “Paola” che lo accompagnavano nelle sue scorribande culinarie.
Una volta confessò che, se non avesse fatto il giornalista, avrebbe voluto essere insegnante di francese. No, Gianni Mura, è andata meglio così: il tuo stile, comunque inimitabile, ha ispirato tanti di noi che hanno abbracciato la tua stessa professione. “Perché un articolo – diceva – è come un buon piatto: ci vogliono gli ingredienti giusti”. Cioè le notizie che poi vanno scritte in italiano corretto, senza ricorrere a tecnicismi inutili che servono solo a farsi bello nei vari Bar dello Sport che pullulano in tutto lo Stivale. Grazie per quello che, pur senza volerlo, ci hai insegnato. Un autentico Maestro al quale la terra sarà lieve. Te lo sei meritato.
Buona domenica.
Lascia un commento