PERUGIA – Tra i primi compagni di San Francesco figurava pure un trovatore, che potrebbe aver aiutato nella revisione del testo del “Cantico delle creature” il poverello di Assisi, in quell’anno (1225), cieco e gravemente ammalato tanto che morirà alla Porziuncola, poco più tardi (nel 1226). Di questo poeta cortese, parlano fonti attendibili, quali Tommaso da Celano e Bonaventura da Bagnoregio, fino alla “Legenda Perugina”. Chi era questo gaudente convertito e da dove veniva? Al secolo, prima che Francesco lo “catturasse” e gli affibbiasse il nome di Fra Pacifico – perché con la conversione aveva finalmente trovato la pace in Cristo -, si chiamava Guglielmo Divini da Lisciano di Ascoli Piceno (1158-1234). Nativo, ancor più specificamente, di Villa di Santa Maria a Corte.
Il suo primo colpo di fortuna nel luglio del 1187 quando compose (all’età di 29 anni) un cantico encomiastico per il passaggio nella Marca, di Enrico VI e di sua moglie Costanza d’Altavilla. La composizione piacque così tanto al futuro imperatore che nominò il trovatore “nobile palatino” e “poeta di corte”. Ed anche Costanza rimase affascinata dal rimatore tanto da definirlo (in uno scritto risalente al 1194), quando era già stata incoronata regina di Sicilia (ultima della casata degli Altavilla) “Fidelis nostre attendentes cum fidem et devotionem”. Pochi mesi dopo, sulla piazza di Jesi di fronte a tutti (per testimoniare che il nato era proprio figlio suo, sebbene non fosse più giovanissima) l’imperatrice consorte partoriva Federico, destinato a divenire “stupor mundi” e nella Rocca di Spoleto in cui, dopo le fatiche del parto, rimase ospite per qualche tempo – del titolo di duca di Spoleto era stato investito da Federico Barbarossa Corrado di Urslingen, fedelissimo alla casa sveva e padrino di Federico, battezzato in Assisi – nel suo seguito brillava il trovatore per il quale stravedevano tutte le dame di compagnia.
Guglielmo da Lisciano fece parte della corte anche a Palermo, dove, nel 1208, Federico II gli riconobbe il titolo di “maestro”. Il trovatore – considerato il maggior poeta del tempo (ma di lui non è rimasto alcuno scritto) – conduceva una vita mondana, lontana le mille miglia dalla religione e dedita ai piaceri, alla frivolezza, alla mondanità. La seconda svolta (e definitiva) dell’esistenza di Guglielmo di Lisciano si registrò nel 1212. Con una gioiosa brigata, come era costume dell’epoca per le classi più agiate – il rimatore era risalito nella Marca Fermana, suo suolo natìo. Qui gli parlarono di Francesco che, di ritorno da un tentativo di andare in missione in Oriente, era stato respinto da una tempesta davanti alle coste della Dalmazia ed aveva fatto rientro sulla riviera adriatica, sostando e rifocillandosi a San Severino.
Il fraticello ed i suoi compagni si erano fermati ospiti in un convento di donne in località Colpersito. E fu in questo centro religioso che avvenne l’incontro. Prima, però, il poeta confidò di aver avuto una visione: quella di un frate (in cui al momento dell’incontro riconobbe Francesco) con due spade poste a croce: una verticale con l’elsa tra i piedi e la lama che arrivava fino alla testa; l’altra in orizzontale, con l’impugnatura a sinistra e la punta che finiva nella mano opposta. Le parole del “poverello” prima dolci, poi dure e minacciose (chi non vive nella grazia di Dio dopo la morte subirà il giudizio divino e precipiterà all’inferno), poi ancora miti ed amorevoli, scossero Guglielmo che, vinto dalle argomentazione del “poverello”, finì per pronunciare la frase: “Toglimi dagli uomini e rendimi al grande imperatore”.
Dalle feste, dagli agi, dalle crapule e dalle gozzoviglie di Palermo, l’ormai ex trovatore, passò ad una vita di penitenza e di rinunce ed indossò un misero saio. Entrò, insomma, nell’ordine francescano, nel quale già ai primordi non militavano soltanto contadini e pastori (quali frate Egidio e fra Giovanni da Pian del Carpine), ma anche giuristi (come Bernardo di Quintavalle e Pietro Cattani), teologi (Filippo Longo), diplomatici e letterati (Elia Bonusbaro), intellettuali di vario genere. L’8 maggio 1213 il novizio, sul Monte della Verna, Pacifico era tra i compagni del “poverello” in occasione dell’episodio della donazione. Nel 1214 narrano che il frate fosse colto da una ulteriore visione nella chiesa di Bovara di Trevi: in cielo rifulgeva un trono vuoto, riservato a Francesco.
Fu quest’ultimo che lo mandò – nel 1217 – in Francia (ovviamente il poeta, per studi ed inclinazione, conosceva la lingua provenzale) a fondare l’ordine in quel paese. In Italia fra Pacifico rientrò tra il 1223 ed il 1225 e poi riguadagnò il suolo francese, nel 1230. E qui, quattro anni più tardi, si spense, in odore di santità, il 10 luglio al Pas de Calais. Dicono che Francesco, che aveva composto la sua splendida laude, abbia fatto convocare il colto frate poeta al suo capezzale. E che lo abbia incaricato di rileggere e rivedere, alla luce della sua “specializzazione” prima della conversione, la composizione. Chissà che non ci sia stato davvero anche il contributo, lo “zampino” del “re dei versi”, nel “Cantico delle Creature”…
D’altronde pure Alessandro Manzoni fece rivedere le bozze del suo capolavoro alla fiorentina Emilia Luti, ex bibliotecaria, per far leggere a contemporanei e posteri, un testo in lingua, pulito e corretto e pienamente corrispondente all’italiano di Dante.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, il dipinto che sintetizza la collaborazione tra San Francesco e Fra Pacifico nella stesura del Cantico delle Creature
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