PERUGIA – La storia non ci insegna nulla. Ricordate come si ballasse sul Titanic, sottovalutando le falle aperte da un iceberg sulla carena del transatlantico, poi affondato in poco più di due ore con il suo carico di 1500 morti? Succedeva nel secolo scorso. Correva il 1912. Oggi per la sordida avidità di alcuni si rischia di sprofondare nello stesso errore degli ospiti della super nave dell’epoca, compiuto per superficialità, per incoscienza, per leggerezza. I dirigenti del calcio di Serie A e di Serie B, ignorando il terribile contagio in corso (migliaia e migliaia di morti, nonni, padri e madri di famiglia, fratelli e sorelle); i drammi e le tragedie che si consumano negli ospedali e nelle abitazioni; i sacrifici, se non gli eroismi silenziosi, di medici, infermieri, addetti della protezione civile; le sofferenze di un paese intero costretto ad una economia di guerra, si siedono intorno ad un tavolo, o magari al sicuro via Skype, per fissare la ripresa degli allenamenti e stanno stilando i calendari per “concludere il campionato”.
Ma ci rendiamo conto dell’assurdità? Neanche il calcio fosse la priorità assoluta del popolo. Amo ed ho praticato il calcio da cittadino prima e da cronista sportivo poi, ma proprio perché lo amo, dico: “Fermiamolo”. Chi metterebbe a rischio di una terrificante pandemia una persona che adora? Nessuno, neanche il più stolto o il più incosciente e malvagio degli uomini. Invece i “signori del calcio” (signori, si fa per dire) vorrebbero riaprire i giochi. Rimettere in moto il circo perché… lo spettacolo deve andare avanti. Alla faccia della vita, della salute e della sopravvivenza degli italiani compresi i calciatori e i loro fan (e pensare che i tifosi sono i primi contribuenti, concreti – portano soldoni non chiacchiere – dei club).
Viviamo “in tempore morbi” e i governanti ci impongono (giustamente) una serie di sacrifici pesanti, in primis negandoci la libertà di movimento. Non ci è consentito incontrare e abbracciare – per il bene comune: quello di impedire la diffusione del morbo – i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri padri perché abitano in un comune diverso dal nostro e lor signori pensano, guarda un po’ tu quanta sensibilità, agli incassi. Noi cittadini, da nord a sud, fremiamo sgomenti, di dolore e di paura, davanti ai numeri dei decessi, dei malati, dei positivi al Coronavirus e loro, magari sorbendosi the caldo, già sognano gli introiti, con gli occhi sgranati che neppure Paperone de’ Paperoni spaparacchiato sulla montagna dei suoi dollari. Questa “avidità di denaro” (“auri sacra fames”, esecranda fame dell’oro, la etichettavano, con disprezzo, i nostri antichi progenitori) spinge i presidenti ad infischiarsela bellamente della salute dell’intero paese. Non solo: questi signori ammantano le loro – irricevibili, spero – richieste con un banale ed accattivante “Non facciamo mancare agli italiani lo sport più amato”. E tutto questo nonostante uno dei focolai in Lombardia sia il frutto – secondo diversi virologi – della partita degli ottavi di Champions League Atalanta-Valencia, disputata a San Siro lo scorso 19 febbraio, davanti a 45mila spettatori.
Falsi. Bugiardi. Farisei. Almeno ditelo chiaramente, signori – solo del calcio – che intendete riprendere i campionati per il vil denaro. Alcuni – i presidenti, dico – hanno già fatto trapelare l’intenzione di togliere gli stipendi ai dipendenti (allenatori, giocatori e connessi) e, addirittura li convocano per gli allenamenti con il fine, in caso di assenza, di imporre loro multe salate e, magari, di licenziarli per mancato rispetto del contratto di lavoro. Addirittura, sfacciatamente, battono cassa all’Erario pubblico, sollecitando aiuti economici al governo. Pretendono, insomma, di mettere le mani sui soldi di noi tutti. Non rabbrividite, lettori, di fronte a tanta cecità, a tale insensibilità? Se non avvertite almeno un fremito di indignazione, il vostro è un cuore di pietra. Una volta diventavano dirigenti del mondo del pallone imprenditori o industriali che, fattisi ricchi, riversavano una parte dei loro guadagni nel sociale. Avrebbero potuto indirizzare queste risorse per aiutare i poveri, gli ammalati, gli anziani? Certo sarebbe stato meglio. Tuttavia, in cerca di fama o di gloria, ripetevano comportamenti vecchi di secoli. Anche nell’antica Grecia e nella Roma repubblicana e imperiale, gli ottimates – o comunque chi ambiva alle cariche pubbliche, a scalare i gradini del “cursus honorum” -, offrivano alla plebe “panem ed circenses”. Di tasca loro, però.
Dunque sia pure con tutti i limiti morali ed etici, le “donazioni” dei patron di un tempo che spargevano soldi propri per l’impresa sportiva magari della propria città o regione, potevano pure avere un senso. Oggi, purtroppo, il calcio si è trasformato del tutto in un “business” come un altro. I dirigenti non riversano denaro per pura liberalità nelle casse della società: no, utilizzano piuttosto il club per accumularne per il loro personale profitto. Aspetto stomachevole e non sufficientemente denunciato. Copiano – senza saperlo – i “lanisti” dell’antichità: gli impresari degli spettacoli, provvisti di tanto pelo sullo stomaco, che, insensibili e brutali, gettavano gli schiavi sulla sabbia del Colosseo e delle arene perché combattessero da gladiatori. Ricordiamocelo almeno quando sarà passata – speriamo presto – la terribile buriana scatenata dal Covid-19.
La società civile dovrà pur rendersi conto, prendere piena coscienza della piega per nulla commendevole imboccata, da lustri, dal mondo del pallone italiano e mondiale. É utopica, troppo romantica una visione meno affaristica del pallone? Si operi, almeno, in modo di farlo tornare ad essere, il più possibile, un sano divertimento, un dilettevole passatempo, per chi gioca e per chi assiste. Si rifili, finalmente, un calcio (virtuale, eh, non c’è bisogno di precisarlo) agli affaristi, cinici e spregiudicati, di Eupalla, neologismo coniato da Gianni Brera, per indicare il mondo del pallone. Trasformato, purtroppo, in un traino ed in un cattivo esempio per tutte le altre discipline.
Elio Clero Bertoldi
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