PALERMO – Ci voleva un centenario lucido e acuto come Edgar Morin per riscoprire il senso e la necessità della fraternità umana: in La fraternità, perché? (libretto di una settantina di pagine scritto nel 2021 alla vigilia dei suoi primi cento anni: ne compirà 103 a luglio!), il filosofo e sociologo francese consegna alcune riflessioni basilari su questa dimensione oggi fraintesa e spesso dimenticata. Nella parte iniziale del testo, Morin evidenzia innanzitutto che libertà, uguaglianza, fraternità – i tre valori tanto osannati dal tempo della Rivoluzione francese, nel 1789 – dovrebbero essere tre termini complementari, che però non si riesce a integrare insieme: “Perché la libertà, soprattutto economica, tende a distruggere l’uguaglianza, come vediamo oggi con l’espansione di questo liberalismo economico che provoca enormi disuguaglianze. Al tempo spesso, imporre l’uguaglianza mette a rischio la libertà. Il problema è allora quello di saperle combinare”.
È necessario allora che la comunità umana riesca ad associare libertà e uguaglianza e, soprattutto, che riscopra e risvegli la fraternità. Che però “non può essere imposta dall’alto o dall’esterno; non può venire che dalle persone”. Qual è dunque la fonte umana e indispensabile della fraternità? Si troverebbe, secondo il filosofo francese, nel nostro secondo “software” (dopo il primo, egocentrico, basato sull’affermazione e i bisogni dell’io) che si manifesta sin dalla nascita “quando il neonato attende il sorriso, la carezza, la cullata, lo sguardo della madre, del padre, del fratello. (…) Gli esseri umani hanno bisogno dello sbocciare del proprio ‘io’, ma questo non può prodursi pienamente che all’interno di un ‘noi’. L’io senza ‘noi’ si atrofizza nell’egoismo e sprofonda nella solitudine. L’io ha bisogno del tu, vale a dire di una relazione da persona a persona affettiva e affettuosa”.
Da sostenitore di un’etica della complessità e da attento osservatore del mondo della natura, Morin sa bene che la vita biologica e sociale “è un nodo gordiano inestricabile di associazioni, cooperazioni, mutui appoggi e conflitti, predazioni, antagonismi e combinazioni incessanti tra vita e morte” e, in secondo luogo, che “la fraternità umana porta in seno delle potenzialità rivalitarie. Polemos è presente in forma virtuale in ogni fraternità e può manifestarsi tramite la rivalità, e questa può ricorrere a Thanatos, come indica l’uccisione mitica di Abele da parte di Caino. La fraternità deve quindi rigenerarsi senza posa, giacché senza posa essa è minacciata dalla rivalità”.
Quali le minacce maggiori per riconoscerci oggi fratelli? Secondo l’autore “la globalizzazione del mondo iniziata nel 1989 con la generalizzazione su tutti i continenti del liberalismo economico e del capitalismo (…) lungi da creare una comprensione tra popoli e una fraternità umana su scala planetaria, ha provocato come reazione una tendenza a ripiegarsi su sé stessi e a rinchiudersi su dei ‘noi’ etnici, nazionali, religiosi”. Inoltre “alla perdita del senso di solidarietà contribuiscono l’isolamento delle persone all’interno del proprio ambito specializzato di lavoro, che impedisce loro di accedere a una visione d’insieme; e anche il dominio di un pensiero che separa e compartimenta, esso stesso incapace di accedere ai problemi fondamentali e globali della vita della società”.
Ancora, lo studioso francese invita a distinguere tra la fraternità chiusa e la fraternità aperta: “La fraternità chiusa si richiude sul ‘noi’ ed esclude chiunque sia straniero a questo ‘noi’ . Anche il nemico suscita la fraternità patriottica, ma la suscita evidentemente contro di lui, che spesso viene persino escluso dall’umanità. (…) Ma questa fraternità si chiude ermeticamente e disumanamente nel nazionalismo che considera la propria nazione superiore alle altre, legittimandosi così a opprimerne un’altra. All’opposto del nazionalismo, invece, il patriottismo permette una fraternità aperta, particolarmente quando riconosce piena umanità allo straniero, al rifugiato, al migrante. Può portare in sé il sentimento d’inclusione della patria nella comunità umana, che è oggi comunità di destino di tutti gli esseri umani del pianeta”.
Morin infine mette in guardia dalla facile euforia del trans-umanismo che crea un ‘uomo aumentato’ nel trinomio scienza-tecnica-economia, mentre “il problema fondamentale dell’umanità in questo stadio critico è quello del miglioramento degli umani a partire dalle loro capacità di comprensione, di amore e di fraternità”. E indica un paio di obiettivi da perseguire: salvaguardare e sviluppare la fraternità delle oasi: “Isolotti di vita altra, micro-arche di Noè nell’oceano delle incertezze del tempo” e nutrire e sviluppare una coscienza d’umanità, a partire da un umanesimo rigenerato che non si limiti all’uguaglianza di diritti e della piena umanità a ogni persona, ma che comporti anche “la coscienza dell’inseparabilità dell’unità e della diversità umana e la coscienza della responsabilità umana nei confronti della natura vivente della nostra Terra. E la coscienza della comunità di destino di tutti gli umani, sollecitata sempre di più dal processo scatenato della mondializzazione”.
Grazie allora al magnifico vegliardo che invita a ripensare a quanto già scritto in un testo del 2002: “Ecco che cosa manca, in qualche modo, perché si compia una comunità umana: la coscienza che siamo figli e cittadini della Terra-Patria. Non riusciamo ancora a riconoscerla come casa comune dell’umanità”. Speriamo di capirlo, prima che sia troppo tardi.
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