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Ecco Angelo Mancini, cantore d’altri tempi

di | 2022-07-17T09:54:06+02:00 17-7-2022 6:35|Cultura, Sezione 8|0 Commenti

MONTEROTONDO – Chi scrive torna a se stesso con la strenua fatica di trovarsi laddove è nato, perché nel mondo ci si può perdere, e anche confondersi. Il racconto di sé, non a caso, ha dato vita alla scrittura, alla letteratura, alla poesia. Nell’Esodo è raccontato il ritorno degli Ebrei dall’Egitto verso la terra d’origine, dove essi potessero riconoscersi con una identità di popolo. Ulisse narra il viaggio, divenendo egli stesso metafora della vita e della ricerca. Virgilio riprende lo schema: Enea nell’inseguire il destino assegnatogli dà inizio ad una nuova stirpe di cui il padre Anchise consolida le radici con la sua profezia.

Scrittura e identità sono in simbiosi e negli animi più sensibili questa dualità ha dato luogo all’arte, in ogni tempo, in ogni luogo. L’equilibrio tra le due può arrivare ad essere spasmodico, sofferto, perché può accadere – e accade – che la ricerca di se stessi non abbia fine mai, allora la scrittura diventa una necessità, una febbre, le stesse che assillano dolcemente Angelo Mancini, a Monterotondo meglio conosciuto come “il poeta”. Nato a Charleroi, in Belgio, da genitori italiani, qui, in provincia di Roma, vive e svolge la sua attività letteraria ma, soprattutto, scrive e in una specie di “labirinto mentale e psichico” – come Silvana Folliero ha definito la sua vocazione – cerca, anzi, si cerca in un delirante, ossessivo, invasamento.

Nel suo ultimo libro “Via Felice” (ed. Manni, 2021), la poesia gli serve per fermare le immagini della sua infanzia, i personaggi, gli odori e anche i sapori perché nei suoi versi lo scrittore non disdegna i ricordi dei piatti tipici del suo paese: li cita, li descrive e li assapora. Lo fa nel tentativo di non perdere la memoria di ciò che fu e che, inesorabilmente, si è perso e si perderà con la velocità del progresso, della tecnologia, mondo nel quale Mancini si sente disorientato e stenta a riconoscere e riconoscersi. La scrittura, allora, diventa rifugio e mezzo: il primo da un mondo in cui non si sente a suo agio, il secondo per scacciarne gli incubi. Sembrerebbe l’atteggiamento di un intellettuale che disdegna il mondo trasformatosi davanti ai suoi occhi mentre lui se ne è tirato fuori e gode di una sveviana inettitudine.

Ma dentro Angelo Mancini, oltre al poeta crepuscolare e bambino di Sergio Corazzini, il “fanciullo triste che ha voglia di morire”, si conserva anche un malcelato gusto per la vita che si esprime nei suoni e nei ricordi conviviali, nei banchetti poveri ma autentici dell’infanzia, in una dolce nostalgia come in una inaspettata e pur presente ironia. Il passato serve al poeta come punto di riferimento per ricordarsi chi è egli stesso, per allontanare il rischio di venire risucchiato da una modernità che rifiuta in blocco non solo nell’arte ma anche nella vita, in cui ha rifiutato di adeguarsi ai nuovi mezzi di comunicazione e a internet, rimanendo fedele solo alla penna.

Dopo gli onirici e talvolta stravaganti “Di-versi si muore”, “Progetti di delirio”, “Souvenir d’Italie”, “Il poetattore” e tanti altri, con “Via Felice” che forse è l’opera della sua maturità, il poeta Mancini raccontando se stesso si identifica e viene riconosciuto non solo per l’aspetto umano ma anche quello artistico. Il libro è stato presentato al Giardino del Cigno in presenza del sindaco Riccardo Varone e dell’assessora alla Cultura Marianna Valenti, che hanno così decretato il suo come il ruolo del “Poeta” della città. Come in tutti i viaggi di formazione che si rispettino, anche in quello di questo cantore d’altri tempi, la scrittura si è prestata come inizio ed è diventata il punto di arrivo.

Gloria Zarletti

Le foto sono di Pio Ciuffarella

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