Sono un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Timorato, piuttosto moralista, preoccupato e indignato quando è il caso. Eppure, io amo ridere di tutto o quasi. Anzi forse proprio per questo motivo amo chi è capace di dissacrare i miei momenti di indignazione furibonda, chi trova il filo del grottesco in momenti drammatici o che per me lo sono.
Funziona sempre così, mi affaccio al mio balcone singolo sui social e in preda a gravi crisi di perbenismo in grisaglia scrivo cose furenti e solenni, dichiaro guerra a tre o quattro stati canaglia, censisco le scelte politiche di questo e di quello, giudico e censuro e solo quando mi ritengo appagato dai miei strali in bello stile torno in casa, per non prendere freddo (perché si sa, i social sono gelidi).
Chiamatelo come volete: golpe, putsch, atto di terrorismo, marcia su Washington.
Stanno già diventando questioni di lana caprina, utili a chi cerca sfumature di gravità diverse di fronte a un atto di monolitica gravità.
Sovversione, milizie armate nel palazzo del Congresso, sub-umanità assortita e ben organizzata per ottenere tre risultati: rinviare la certificazione della vittoria di Biden, pisciare sulle istituzioni democratiche e cercare di arraffare ballot o almeno documenti secretati qua e là.
Cinque morti, molti feriti. Il tutto in diretta televisiva e sui social.
Però una cosa sento di volerla gridare: se nel momento più drammatico della storia americana di questo secolo la prima cosa che ti viene in mente è scrivere una battuta sagace per i tuoi follower, se l’istinto per il meme in contemporanea supera quello per l’ascolto e lo sconcerto, forse c’è qualcosa che non va.
Michele Dalai
giornalista e scrittore
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