PERUGIA – L’ultima latitanza di Grazianeddu è finita la notte tra il 17 ed il 18 dicembre, in un letto, dove dormiva, con un maglione sopra la tuta, uno zaino accanto e seimila euro in contanti nelle tasche, pronto all’ennesima fuga, ospite nell’abitazione di due coniugi cinquantenni a Desulo, in Barbagia, una cinquantina di chilometri dalla sua Orgosolo. “Loro non c’entrano”, ha tentato di spiegare ai corpi speciali dei carabinieri, che hanno fatto saltare le porte dell’abitazione con le granate per sorprenderlo ed arrestarlo. La coppia ha usufruito del beneficio dei domiciliari. Gli inquirenti fanno intendere che l’arrestato potrebbe aver trovato rifugio nella palazzina – quasi una cella: una stanzetta senza arredi, solo il letto ed una stufetta elettrica – dopo le gelide nevicate sui monti della Barbagia, rifugio storico ed inaccessibile dei “balentes”.
Graziano Mesina, 79 anni, torna in prigione (stavolta nel carcere di Badu e’ Carrus), dove ha trascorso, complessivamente, quasi quarant’anni della sua esistenza. L’ex Primula Rossa del banditismo sardo ha smarrito lo smalto e l’alone di simpatia che un tempo gli venivano riconosciuti, tanto che un grande giornalista come Indro Montanelli si dichiarò pronto ad aiutarlo ed a scrivere una biografia sul “balente” sardo e Giangiacomo Feltrinelli, nel 1968, avrebbe voluto nominarlo, quasi lo ritenesse un novello Che Guevara, comandante in capo del Movimento saparatista isolano. Come se la Sardegna fosse Cuba o la Bolivia.
Grazieneddu, penultimo figlio di 11 (sei maschi, cinque femmine), proveniva da una famiglia povera dedita alla pastorizia, il padre Pasquale e la madre Caterina Pinna, e gli si prospettava un futuro da servo pastore. Lui era venuto su un po’ discolo, se è vero che alle elementari aveva preso a sassate il maestro troppo severo (lo ha rivelato l’interessato) e che a colpi di fucile aveva fatto saltare le lampade di illuminazione pubblica del suo paese (lo riportano i verbali della locale caserma dell’Arma). A quattordici anni il primo arresto. Poi l’omicidio (l’unico del quale sia stato riconosciuto colpevole, per una feroce faida tra famiglie), le rapine, i sequestri, gli scontri a fuoco, il carcere, le evasioni (ventidue: dodici tentate, dieci riuscite). Ovviamente le fughe sono state utilizzate da Grazianeddu, esuberante e vanitoso in gioventù, come un biglietto da visita. Confidava che durante una latitanza, ai tempi dello scudetto del Cagliari, sarebbe andato addirittura al Sant’Elia per vedere ed applaudire le prodezze di Gigi Riva e degli altri rossoblu, orgoglio di ogni sardo.
Basso di statura, ma agile, scattante, muscoloso, deciso, con un carattere determinato, da leader, il “Re del Supramonte” svolse un ruolo determinante nella trattativa per la liberazione del piccolo Farouk Kassam, 7 anni, cui i crudeli sequestratori dell’Anonima Sarda, per costringere la famiglia dell’ostaggio a pagare il riscatto (chiedevano 5 miliardi), tagliarono persino, nel 1992, un orecchio. Fu Grazianeddu stesso ad annunciare la liberazione dell’ostaggio – trattenuto in una grotta di Lula – comparendo, nel tg della sera su Rai Uno. Il momento culminante della sua fama. Ricco di fantasia e forza d’animo, in cella non pensava che al modo di scappare, di tornare libero. A Viterbo tentò la fuga, ma lo scoprirono in tempo. Trasferito a Spoleto, nel carcere della fortezza dell’Albornoz (da dove non era mai fuggito nessuno, tranne un gruppo di 20 partigiani durante la Seconda guerra mondiale, forse con qualche aiuto interno, tanto che le SS avrebbero voluto fucilare, seduta stante, il direttore per rappresaglia), provò a filarsela, invano, anche dalla possente costruzione progettata per il cardinale-guerriero dal Gattapone, l’architetto Matteo di Giovannello di Gubbio. Tentò persino l’evasione durante i trasferimenti in treno. Una volta gli andò male, un’altra gli riuscì, ma venne ripreso di lì a poco.
Clamorosa invece la fuga dal carcere di San Sebastiano di Sassari. Correva l’11 settembre 1966. Lui aveva 24 anni. Gli misero una taglia da 5 milioni sulla testa. Grazianeddu scalò un muro alto sette metri e, insieme a Miguel Atienza – poi identificato come Miguel Alberto Asencio Prados Ponte (1942-1967), madrileno, suo coetaneo, ex mercenario della Legione Straniera, deceduto pochi mesi più tardi, in Sardegna, nel corso di uno scontro a fuoco, ricordato come “la battaglia di Osposidda” con le forze dell’ordine (i baschi blu) alla caccia dei responsabili di un sequestro di persona, conflitto nel quale morirono due agenti e quattro banditi – e si ritrovò libero in una strada centrale di Sassari da dove si allontanò, tra la folla, con indosso, almeno questa la vulgata, una tonaca da sacerdote. Dieci anni più tardi – 20 agosto 1976 – altra evasione di gruppo, stavolta, dal carcere di massima sicurezza di Trani. Tra i compagni di fuga alla Rocambole, un capo dei Nap (nuclei armati proletari). Narrano le cronache che, in quella circostanza, Mesina sia rimasto nascosto tra le fronde di una pianta, a poca distanza dalla struttura carceraria, per trentasei ore.
Dalla Puglia si spostò a Milano, dove Francis Turatello, al tempo esponente di spicco della criminalità meneghina, gli avrebbe inviato, con un gesto di amicizia e di rispetto, due ragazze per farlo distrarre. Le due – sacerdotesse del sesso – resistettero un paio di giorni. Poi ritornarono dal boss e spiegarono che Grazianeddu appariva insaziabile. Neanche loro, pure professioniste, riuscivano a tenergli il passo. A rafforzare la capacità di resistenza e di fantasia un’altra fuga: si allontanò da un ospedale di Nuoro, dove era piantonato, scavalcando una finestra ed aggrappandosi ai tubi di scarico, che scendevano dal tetto della struttura sanitaria. Anche in questo caso, nascondendosi, per ore, acquattato in un cunicolo. Realizzò anche una fuga per amore. Non rientrò, nel 1985, dopo un permesso dal carcere di Porto Azzurro, per vivere una sorta di luna di miele con la sua fidanzata del momento, una ragazza milanese di 29 anni. Durò una settimana la “fuitina”: Grazianeddu fu arrestato, sempre a Vigevano, nell’abitazione di un ragioniere in pensione, già noto alle forze dell’ordine, che viveva solo ed aveva ospitato, a pagamento, la coppietta di innamorati.
Nel 2004, su impulso del ministro della Giustizia Roberto Castelli, ricevette la “grazia” dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Sembrava il provvedimento del capo dello Stato potesse trasformarsi in una forma di riscatto da una esistenza violenta, spericolata e ricca di guai e l’inizio di una nuova vita, per Mesina. Il quale si improvvisò nel mestiere di guida turistica nella sua isola, guidando i visitatori a partire dal Supramonte e di commerciante di prodotti agricoli. Inoltre avviò, con alcuni soci, una agenzia di viaggi nel Padovano. Girava, in questo periodo, su una vistosa Porsche Cayenne. Ma ecco – siamo nel 2013 – un nuovo arresto: gli contestarono di essere a capo di un traffico di droga. Tornato libero in attesa della sentenza definitiva, alla vigilia del verdetto – nel luglio dello scorso anno – Mesina si diede di nuovo alla macchia. Gli specialisti del Ros e del Gis lo hanno scovato, dopo sedici mesi, nella abitazione della anonima ed insospettabile coppia di Desulo. Il latitante non era armato, non ha fatto resistenza. Però ha sempre ripetuto: “Non finirò i miei giorni in carcere… Meglio la morte…”.
Chi può assicurare che Grazianeddu, quasi ottantenne e pur appesantito dalla pinguedine, non provi l’ennesima, clamorosa, fuga?
Elio Clero Bertoldi
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