Quando ero bambina, avrei voluto fare il medico. In realtà, il sangue mi dava fastidio, anche solo a vederlo, era più l’idea dell’essere utile agli altri, indispensabile per gli altri, che mi piaceva. E poi? Com’è che hai cambiato idea? Credo sia avvenuto in prima liceo.
Ho incontrato una professoressa, una tostissima. Eravamo al classico, sai. Ci assegnò un’analisi del testo di un brano di De Gregori. Era il mio cantante preferito. Io scrivevo bene. Mi piaceva mettere su carta i pensieri, mi era sempre piaciuto: con la penna in mano, mi sentivo libera. Scrissi per tre ore, direttamente in bella, quattro colonne fitte fitte. Quando mi riportò il tema, non c’era neanche un segno rosso, ma il voto era cinque. Il primo cinque della mia vita. L’unico, da allora in poi. Mi sentivo male, chiesi spiegazioni, mi disse, fredda, che dentro quelle parole non c’ero io, non c’era nulla di me. Mi ero così tanto preoccupata di fare bella figura da aver perso completamente di vista il mio piacere, la mia passione per la scrittura e lei, evidentemente, se n’era accorta. Mi ridiede indietro il compito, lo rilessi, era un pezzo corretto, scolastico, vuoto. In quel momento esatto credo di aver capito.
Da grande, avrei voluto essere come lei, avrei voluto insegnare per tirare fuori dai miei alunni la passione, il talento, il dentro che, troppo spesso, restava chiuso lì, nei margini della conoscenza, della correttezza ortografica, della bravura.
Negli anni, non ho mai dubitato di aver fatto la scelta giusta. Il mio lavoro era passione, il mio studio era passione, ciò che facevo non mi stancava, non mi pesava.
La scuola ha il compito di condurre giovanissimi alunni, al termine del primo ciclo di istruzione, a scegliere. E non è mai una scelta semplice. Non lo è, se abbiamo allenato i nostri studenti a guardare a ciò che non possono, non vogliono, non sanno fare. Proprio così.
La chiave di volta sono i docenti. Sono loro, gli unici in grado di orientare al talento. Sembra un concetto che lascia indietro qualche alunno, quelli svogliati, fannulloni, quelli degli ultimi banchi, invece, è un presupposto estremamente inclusivo. Non temo, infatti, l’impopolarità nel dire, a gran voce, con Pennac, che “ogni musicista suona il suo strumento” e, quindi, ogni alunno possiede un suo talento, perché una classe, pur variegata che sia, è un’orchestra composta da tanti musicisti, ciascuno diverso dall’altro, ma ciascuno con una propria peculiarità, con una proporia capacità particolare, il tutto sta a scovarla, ad essere in grado di farla venire allo scoperto, in quel meraviglioso processo maieutico che è il percorso di apprendimento. L’alibi dell’alunno che non ha voglia di far nulla, che dorme ed è disinteressato a qualunque attività, che non s’appassiona a niente, che non ha stimoli, non deve trarci in errore. Siamo noi che dobbiamo riuscire ad arrivare dove loro, da soli, non arrivano, e non dobbiamo arrenderci, mai.
È faticoso, certo, può essere frustrante, a volte, ma è il nostro lavoro e, se lo abbiamo abbracciato come una missione, non deve pesarci, non deve stancarci, perché saremo soddisfatti solo se avremo raggiunto il nostro fine ultimo: condurli al successo, che esso sia suonare il piccolo triangolo o il primo violino, poco importa. Alla base di tutto ciò, ovviamente, occorre una fortissima motivazione, grande passione e stomaco di ferro, occorre essere più determinati di chiunque altro. Le difficoltà saranno enormi e non sempre avremo in tasca la soluzione ai problemi, ma, a piccoli passi, risolveremo.
È chiaro che questo percorso è più complesso, se abbiamo davanti solo i pochi mesi della classe terza, se li prendiamo a settembre perché siamo precari, se ci è stata affidata una classe “difficile”, ma dobbiamo tentare e riuscire comunque: ne abbiamo il dovere morale.
Un punto di partenza essenziale è certamente il lavoro in squadra. Non si può pensare di fare i tiratori liberi, in questo gioco. Un alunno che disegna in tutte le ore e che produce dei lavori dignitosi può non essere così pronto nell’esecuzione di un esercizio di grammatica. Ed ecco che il consiglio di classe ha un ruolo fondamentale. Tutti devono lavorare nella stessa direzione. Il coordinatore, poi, raccoglie, ma non può mai essere l’unico che “orienta”.
Sono consapevole che, così come siano eterogenee le classi, allo stesso modo lo sia la popolazione dei docenti e sono altrettanto consapevole che per orientare occorre, a nostra volta, essere degli appassionati che hanno scelto di essere docenti, quindi, sebbene la totalità sia assolutamente auspicabile, anche una buona maggioranza può essere utile allo scopo.
Spesso, potremo trovare ostacoli rappresentati dalle famiglie. Non bisogna mai dimenticare che un genitore convinto che il proprio ragazzo debba diventare un astronauta non cederà mai all’idea che il proprio figlio sia un portento nella scrittura. Non potremo, allora, pensare che il nostro compito si esaurisca nel momento in cui riusciremo ad orientare gli studenti, ma dobbiamo instaurare un dialogo con le loro famiglie, nel tentativo, a volte, vano, di far comprendere al genitore che una scelta errata potrebbe condurre all’insuccesso ed alla frustrazione.
È fondamentale che i ragazzi si guardino attorno, che analizzino non solo se stessi, ma anche le offerte del territorio in cui vivono, tuttavia, l’idea di poter fare pronostici sui lavori che, di qui a dieci anni, siano i più richiesti dal mercato, non deve sfiorarci. Così come dovremo essere capaci di spiegare ai nostri giovani alunni che una scuola “modaiola” non è per forza meglio di una meno nota o che andare per seguire la massa o l’amico può essere davvero deleterio e rappresentare una sconfitta.
L’impresa è ardua, ma, se siamo convinti, possiamo raggiungere il traguardo e compilare quel consiglio orientativo, non come un mero adempimento burocratico, ma con la consapevolezza di chi sia sia realmente speso per sostenere i propri studenti nella scelta di un percorso non solo scolastico, ma di vita.
Alessandra Pernolino
dirigente scolastica dell’IC Sermide di Sermide e Felnica (Mantova)
Lascia un commento