//Dal “nostro generale” alle latitanze dorate

Dal “nostro generale” alle latitanze dorate

di | 2023-01-28T13:09:00+01:00 29-1-2023 7:00|Punto e Virgola|0 Commenti

C’è una singolare e fatale coincidenza che fa riflettere: proprio nei giorni in cui veniva finalmente catturato e ristretto nelle patrie galere il latitante Matteo Messina Denaro, andava in onda su RaiUno la fiction dedicata a Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale dei Carabinieri che, dopo aver combattuto e sconfitto il terrorismo, fu mandato a Palermo come prefetto per combattere e possibilmente sconfiggere la mafia e che in quella splendida città fu ucciso, insieme alla seconda moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo, in quella che viene ricordata come la strage di via Carini.

“Il nostro generale” si intitola la serie televisiva, ideata e diretta (insieme ad Andrea Jublin) da Lucio Pellegrini su soggetto e sceneggiatura di Monica Zapelli e Peppe Fiore, con la consulenza storica del giornalista Giovanni Bianconi. Nei panni dell’ufficiale dei carabinieri uno splendido Sergio Castellitto, ben coadiuvato da un cast di assoluto valore. A raccontare la vita (e la morte) di Dalla Chiesa è l’appuntato dei Cc Nicola Amato (interpretato da Antonio Folletto), uno degli uomini che aveva fatto parte sin dalla nascita del team voluto e creato per contrastare le Brigate Rosse.

Da un lato, dunque, lo Stato che dopo trent’anni riesce a porre fine alla dorata e incontrastata latitanza di un boss, dall’altro lo stesso Stato che non seppe (o non volle?) proteggere e difendere uno dei suoi uomini migliori che aveva dimostrato sul campo di avere le idee giuste per sbaragliare quei fenomeni terroristici che avevano insanguinato l’Italia per oltre un decennio. In entrambe le vicende, legate da un invisibile ma potente fil rouge, c’è qualche legittima considerazione da fare.

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Come è possibile che un super-ricercato del calibro di Messina Denaro abbia potuto vivere più o meno tranquillamente per così tanto tempo comprando auto e case, frequentando ristoranti di lusso, probabilmente viaggiando dentro e fuori l’Italia, facendo insomma una vita pressoché “normale”? La risposta è semplice e non ha bisogno di particolari intuizioni per essere pronunciata: ci sono state a tutti i livelli (forse anche molto alti) protezioni e omissioni, soffiate e collusioni. Anche tradimenti. E’ triste doverlo ammettere, ma le cose stanno così. E qui non si parla solo di coloro che materialmente hanno aiutato in tutto questo tempo il boss (quella è manovalanza di cabotaggio medio-piccolo), ma di strutture più sofisticate, in qualche modo collegate anche agli apparati dello Stato.

In un trentennio, Messina Denaro ha continuato a fare affari milionari buttandosi nella cosiddetta “economia green”, oltre ad essere uno degli uomini più potenti e temuti della gerarchia mafiosa. D’accordo, la sua cattura è stata una vittoria dello Stato, ma sarebbe anche onesto ricordare che quel successo arriva dopo trent’anni di insuccessi. Anche cocenti.

Come pure va inserita nella casella delle sconfitte più gravi e dolorose la vicenda di Carlo Alberto Dalla Chiesa. L’ufficiale aveva combattuto il banditismo in Campania e poi Cosa nostra in Sicilia, divenuto generale di brigata a Torino dal 1973 al 1977, fu protagonista della lotta contro le Brigate Rosse: su sua proposta venne infatti creato il “Nucleo Speciale Antiterrorimo” attivo tra il 1974 e il 1976. Il suo metodo (utilizzare le stesse tecniche dei terroristi) fece scuola e permise di smantellare le cellule che operavano in varie città d’Italia. Anche in queste azioni indubbiamente efficaci non ebbe vita facile, anzi… Era un uomo di poche parole, assolutamente poco incline ai compromessi; spesso tentarono di fargliela pagare, sottraendolo ai compiti operativi. Però le sue indubitabili qualità ebbero la meglio: nel 1982, a 62 anni, fu nominato prefetto e inviato a Palermo con il compito di combattere la mafia.

E questa fu la sua fine. Senza i mezzi e gli uomini che pure aveva ripetutamente chiesto, senza protezioni, spesso attaccato anche da chi avrebbe dovuto difenderlo, fu di fatto dato in pasto alla vendetta mafiosa che infatti lo eliminò: era troppo ingombrante e pericoloso per gli interessi d’ogni genere che andava a toccare. E non fu anche questa un’atroce sconfitta per lo Stato? Le lacrime di coccodrillo dei giorni successivi all’agguato non bastarono a lavare mesi, anni di costante delegittimazione.

La solida e meticolosa ricerca storica è l’aspetto principale della fiction che riesce a fare immergerci in quel periodo, soprattutto il clima di tensione, grazie ad articoli di giornale, materiale di archivio e filmati inediti. Alla base ci sono le dichiarazioni dei famigliari, di alcuni magistrati e dei membri della squadra. Ciò ha permesso di dare spessore al personaggio di cui si coglie la caratura morale, l’intransigenza, la determinazione ma anche l’umanità e l’empatia. «Una fiction che sprigiona amore e passione», ha commentato Rita, la figlia maggiore del generale Dalla Chiesa.

Adesso Matteo Messina Denaro finirà i suoi giorni in galera, curato nella maniera più adeguata. Perché uno Stato serio non si vendica, ma punisce con severità chiunque si macchia di delitti così orrendi. Mentre “Il nostro generale”, insignito alla memoria della medaglia d’oro al valor civile, riposa nel cimitero della Villetta a Parma: a lui e a tutti coloro che sono morti nell’adempimento del dovere, bisogna solo dire grazie.

Buona domenica.

Nell’immagine di copertina, Sergio Castellitto che interpreta nella fiction il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

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