RIETI – Cosa sta succedendo? Il conflitto ha radici nella deposizione del dittatore Al-Bashir del 2019 e nel tramonto del sogno democratico. La democrazia in Sudan è ormai quasi un miraggio. Gli abitanti di Khartoum il 15 aprile si sono svegliati con il sibilo dei jet da guerra e il boato dei bombardamenti. A scontrarsi sono l’esercito, guidato dal generale sessantatreenne Abdel Fattah al-Burhan, e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (RFS), guidato dal generale cinquantenne Mohamed Hamdan Dagalo. A farne le spese, come ormai è disumana consuetudine, perché non c’è più un fronte di guerra, sono gli obiettivi civili, ospedali, scuole.
I morti dei primi tre giorni di conflitto, tra militari e non, sono stati un centinaio, le interruzioni nella fornitura di acqua, elettricità e carburante, che dipendono dai generatori, compromettono la funzionalità delle strutture sanitarie, lo spazio aereo è chiuso, il Paese è di fatto in una guerra civile. Dalla comunità internazionale gli appelli al cessate il fuoco si moltiplicano, ma a poco servono, del resto non è la prima volta che questa è una delle tante “crisi annunciate”, come per il Dombas.
Nel Sudan, terzo Paese più grande del continente africano, montuoso a sud e desertico a nord, con una posizione strategica e importanti risorse, la situazione è instabile da tempo. I conflitti del Darfour e del Sud Sudan sono cosa nota, ma nessuno ha fatto niente, ancora una volta abbiamo fatto finta di non vedere (e verrebbe da citare Pierluigi Bersani: ma non la vedete la mucca nel corridoio?). Nell’aprile 2019, dopo mesi di proteste popolari e rivolte di piazza, un colpo di stato militare rovescia l’autoritario al-Bashir, al potere da trent’anni. Ma la speranza di una transizione democratica dura poco, interrotta per mano dei due generali, un tempo alleati, oggi rivali.
Il loro sodalizio era iniziato all’epoca della guerra del Darfour (2003-2020): al-Burhan, molto vicino all’allora presidente al-Bashir e con una lunga carriera militare alle spalle, era comandante dell’esercito. Dagalo, ex mandriano di cammelli con la licenza elementare, guidava una sorta di secondo esercito paramilitare, composto da pastori arabi responsabili delle peggiori atrocità, chiamato Janjaweed (“demoni a cavallo”) e rinominato nel 2013 Rapid Support Forces (RSF). Entrambi si schierano contro al-Bashir e guidano il primo Consiglio Militare, sostituito dal Consiglio Sovrano, un organo collettivo, composto da militari e civili, con il ruolo di guidare la transizione democratica. Ma al-Burhan non vuole cedere il potere e il colpo di stato è dell’ottobre 2021, con cui riprende la leadership del Paese. Dagalo viene nominato suo vice. Le proteste civili di massa, conosciute come “Marches of the millions”, vengono represse con la forza.
Da allora i due hanno confermato a più riprese di voler rispettare l’accordo di condurre il Paese a libere elezioni nel 2023. Ma da alcuni mesi la loro alleanza ha cominciato a sgretolarsi, spegnendo la fiducia in promesse, già poco credibili. L’oggetto del contendere è l’accordo per restituire il potere a un’amministrazione civile, firmato da al-Burhan che prevede, tra l’altro, l’unificazione tra l’esercito e le Rsf per formare un unico comando delle forze armate sotto il controllo del Presidente. Dagalo è contrario, vede in questo progetto un tentativo di distruggere il suo potere (e i suoi affari), privandolo del controllo sui militari. Dopo mesi di contrasti, la situazione esplode. A pochi giorni dall’inizio degli scontri, le responsabilità si rimpallano.
Entrambe le parti dichiarano di controllare i siti chiave, tra cui il palazzo presidenziale e l’aeroporto, ma la verità è difficile da verificare. Difficile scendere a compromessi, nonostante Egitto, Sud Sudan e Kenya si offrano di mediare, il capo dell’Unione Africana affermi di volersi recare in Sudan e la Lega Araba programmi una riunione di emergenza. Il Paese è nel caos ed è come spesso accade, un caos annunciato. La Rsf gli aveva permesso di arricchirsi prendendo il controllo delle miniere d’oro e di fare affari con la Russia. Gli era anche valso il soprannome di Hemedti, “mio protettore”, attribuitogli dall’ex presidente al-Bashir.
Laura Lo Castro, rappresentante UNHCR in Ciad, scrive da Abeche, nel Ciad orientale, per informare sulla situazione e su come UNHCR sta rispondendo a questa ulteriore emergenza che affligge una zona del mondo già estremamente provata. Combattimenti e bombardamenti continuano a Khartoum, nel Darfur e in molte altre zone del Paese. In pochi giorni, decine di migliaia di persone, donne e bambini, sono state costrette a fuggire attraverso il confine con il vicino Ciad. Famiglie, come tutte le famiglie del mondo, nate dalla parte sbagliata, costrette improvvisamente a fuggire dalle loro case, lasciandosi tutto alle spalle. Ora si ritrovano senza un posto sicuro, dormono all’aperto riparandosi sotto gli alberi, senza acqua, cibo o beni di prima necessità. Non hanno nulla. E’ possibile fare una donazione a UNHCR: ogni 8 donazioni da 50 euro, UNHCR garantirà a una famiglia di cinque persone una tenda sotto cui trovare riparo e sicurezza.
La crisi in Sudan è scoppiata durante gli ultimi giorni del Ramadan, in concomitanza con le celebrazioni dell’Eid al-Fitr (Festa dell’interruzione del digiuno). La situazione è sempre più drammatica e si evolve di ora in ora. “Ci stiamo preparando a intensificare il nostro lavoro nel caso in cui la situazione peggiori e arrivino altri rifugiati” fanno sapere dall’UNHCR che prevede un esodo di più di 800 mila persone. L’80% degli ospedali è stato costretto a chiudere, per fortuna Emergency c’è. “E le stelle stanno a guardare” scriveva Cronin, sullo sfondo delle miniere del Galles, in una storia di grandi, fondamentali conflitti sociali, civili e sentimentali. Qui possiamo dire: “E l’Europa sta a guardare…”.
Francesca Sammarco
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