Qual è il confine (se esiste) tra la salute pubblica e la tutela della libertà di impresa? Ed è poi possibile conciliare in qualche modo esigenze che in questo periodo appaiono decisamente in contrasto tra loro? Le domande sono tutt’altro che retoriche e nascono da quanto sta accadendo in questi giorni in cui il coronavirus sta rialzando la testa con il numero dei contagiati in forte aumento in tutta Italia. Prima di tentare di dare una risposta alle precedenti domande, è bene esser chiari sulla situazione che sta vivendo il nostro Paese: è vero, aver raggiunto la soglia dei mille contagi quotidiani è preoccupante, ma per fortuna non sono affatto in crescita né il numero delle vittime (ieri 3) né soprattutto i ricoveri in terapia intensiva (64 in tutta Italia, sempre ieri). Va anche sottolineato che sui deceduti vige una strana congiura del silenzio, nel senso che non si riesce ancora a conoscere le vere cause della morte. Intanto, ieri sicuramente i morti per incidente stradale o per infarto o per tumore sono stati sicuramente più di tre…
Tutto questo non significa affatto abbassare la guardia, che invece va tenuta altissima mantenendo i controlli serrati e imponendo regole severe di distanziamento sociale e l’utilizzazione dei dispositivi di protezione individuale. In queste settimane, diciamoci la verità, molti di noi hanno inconsciamente mollato e purtroppo i risultati si stanno vedendo. Non vale nemmeno il discorso dei rientri in patria dopo vacanze all’estero: andavano imposte regole per chi partiva e per chi rientrava. Se non è stato fatto o non sono state applicate, non si può adesso accusare nessuno: se qualcosa non è espressamente vietato, allora è lecito. E questo vale sempre. Si accusano le discoteche di essere fonti di contagio, ma solamente uno sciocco può pensare di evitare il distanziamento in luoghi del genere: piuttosto, se si paventava questo pericolo, bisognava proprio evitare di aprirle. Insomma, come spesso accade, si chiudono le stalle quando i buoi sono già tutti tranquillamente usciti.
Ma qui si torna ai quesiti d’apertura, perché alcuni episodi fanno riflettere. Quattordici giorni di quarantena per il titolare di un noto ristorante di Piombino: la figlia è risultata positiva al tampone, il resto della famiglia negativo. Ma nonostante questo, anche il ristoratore e la moglie dovranno stare in isolamento per due settimane. A Venturina, sempre in provincia di Livorno, i titolari di un bar ristorante sono in quarantena perché il figlio è risultato positivo al tampone. Nel frattempo, l’attività viene portata avanti dai dipendenti. E in Umbria, il sindaco di un comune sul lago Trasimeno con un’ordinanza ha chiuso un locale storico in via precauzionale perché un membro dello staff è risultato positivo. Si torna quindi al dilemma di cui sopra: la tutela della salute pubblica è sacrosanta, ma anche la necessità di lavorare da parte degli operatori commerciali. Già si sentono le obiezioni: prima la salute e poi tutto il resto. Giusto, ma se dopo mesi di chiusura forzata, si ricomincia ad intravedere qualche spiraglio di ripresa, non si può accettare che la speranza venga nuovamente spenta.
I bravi investigatori sostengono che una buona indagine si compie se si riesce ad analizzare il delitto da diversi punti di vista. Pensate ai lupi che sbranano le pecore: gli animalisti sostengono che è una fatto naturale, ma proviamo a spiegarlo e a metterci nei panni del pastore che vede il proprio gregge decimato… Ecco, la questione sta proprio in questi termini: bisogna conciliare esigenze diverse (e non è impossibile), imporre regole precise e farle rispettare. E soprattutto non è il caso di creare allarmismi eccessivi, almeno in questa fase.
Buona domenica.
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