Negli ultimi giorni due episodi simili e caratterizzati, purtroppo, dallo stesso epilogo: la morte di uno zio (per parte di madre) di chi scrive e quella del papà di un caro amico. Entrambi erano ricoverati in ospedale (strutture diverse) per patologie che necessitavano di interventi chirurgici non procrastibili: riduzione di una frattura al femore in un caso, asportazione di un rene nell’altro. Entrambi se ne sono andati nel giro di un paio di mesi a causa del coronavirus, contratto nelle corsie delle case di cura e senza alcun tipo di contatto con parenti o amici.
Quindi, il contagio è avvenuto in uno dei luoghi che dovrebbero essere più sicuri in assoluto e per “colpa” di un operatore sanitario: medici, infermieri, oss, tecnici di laboratorio… Non si scappa da queste triste verità, visto che negli ultimi due mesi di vita rapporti di qualunque genere col mondo esterno non ce ne sono stati. E allora la domanda è una sola: è possibile morire per un dannato virus “ricevuto” quando si era ricoverati in ospedale? La risposta è scontata e non vale neppure la pena citarla. Inutile aggiungere che chissà quanti altri casi uguali si sono registrati nell’ultimo anno in tutta Italia: migliaia di persone, soprattutto anziane, che se ne sono andate in silenzio, sole e abbandonate senza nemmeno il conforto della presenza delle persone più care e dell’ultimo abbraccio.
Peraltro, persone di una età costrette per così lunghi periodi alla solitudine totale inevitabilmente ne risentono sul piano psichico con conseguenze ancora più gravi: scollamento dalla realtà, perdita del senso del tempo e della memoria, anaffettività anche verso le persone più care… Un tracollo psicologico che inevitabilmente influenza anche il quadro clinico, a prescindere dal coronavirus. Ma è proprio necessario tener chiusi per mesi palestre, teatri, piscine, ristoranti e, in larga misura, soprattutto le scuole se poi il Covid si prende in ospedale? Anche in questo caso meglio non dare risposte scontate e banali.
Ma ci sono altri aspetti che in queste terribili vicende meritano di essere sottolineati. La comunicazione con i familiari, per esempio. Già, perché va detto con onestà che chi rimane a casa ha bisogno disperato di avere notizie sulla persona ricoverata con una certa frequenza e in modo regolare. E invece questo non è accaduto se non in forma piuttosto saltuaria. Tanto che alle rimostranze per le informazioni carenti o addirittura mancanti, qualcuno ha risposto sottolineando che il compito dei medici è di curare i malati prima che dare notizie ai parenti. Giusto, giustissimo, ma intanto sarebbe innanzitutto auspicabile evitare il contagio in luoghi che per definizione dovrebbero, anzi devono, essere asettici e sicuri. E se il contagio è avvenuto per “colpa” di un qualche operatore sanitario, vien da chiedersi pure quanti altri pazienti abbiano subito la medesima sorte. E poi si legge che più di qualcuno che opera in case di cura ha rifiutato di vaccinarsi, adducendo motivazioni che nulla hanno da spartire con quanto la scienza sostiene in tutte le sue declinazioni. Incredibile. E inaccettabile.
Alla fine è arrivata la telefonata più temuta, quella che ha messo fine alla questione senza possibilità di ulteriori interlocuzioni. “Andrà tutto bene” ci dicevamo durante il primo periodo di chiusura totale: non è affatto andato tutto bene e purtroppo si ha la sensazione che anche in futuro ci saranno parecche difficoltà a poter dire “tutto bene”, visti i problemi connessi all’attuazione del piano vaccinale nazionale. L’immunità di gregge, sostengono gli esperti, si raggiunge quando almeno il 75% della popolazione ha ricevuto prima e seconda dose. Quindi 45 milioni di italiani: con i ritmi attuali ci vorranno molti mesi, probabilmente più di un anno. Addirittura un paio, secondo i più pessimisti. Non ce lo possiamo permettere e non lo possiamo accettare. Anche e soprattutto perché la morte di decine di migliaia di nostri concittadini (compresi parenti e amici) non sia stata completamente inutile.
Buona domenica (nonostante tutto).
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