MILANO – Shoah (tempesta devastante, in ebraico) e nakba (catastrofe, in arabo) sono due termini drammatici che rimandano a due popoli in guerra da quasi un secolo: da una parte gli ebrei tornati nella loro terra ancestrale e dall’altra i palestinesi che in quei territori si erano stanziati dal settimo secolo. L’unica voce autorevole contro il conflitto ancora in corso sembra essere rimasta quella di Papa Francesco che, già nell’enciclica “Fratelli tutti” del 2020, auspicava la necessità di una rinnovata fratellanza, stigmatizzando il risorgere di nazionalismi aggressivi e la neo-cultura dei muri eretti “nel cuore, nella terra”. Per il resto, le grandi potenze rimangono in posizioni generalmente attendiste, le risoluzioni degli organismi sovranazionali ed i loro veti restano inascoltati, gli stati belligeranti (e non) proseguono la loro assurda corsa agli armamenti con minacce di vicendevoli ricorsi ad armi più sofisticate e potenti.
Bisognerebbe che un’azione politica condivisa operasse concretamente per la pace, prima che l’umanità intera imbocchi una direzione senza ritorno. Basterebbe, forse, già cominciare a constatare che ci sono tanti israeliani, contrari alle scelte del governo estremista in carica, che si oppongono all’occupazione illegale di territori e condannano i raid e le operazioni militari contro la popolazione di Gaza, stremata dalla fame, ed ugualmente tanti palestinesi che prendono le distanze dalla barbarie delle azioni terroristiche dei tagliagole di Hamas e dal protrarsi della disumana prigionia degli ostaggi. I due popoli, vittime indistinte di un identico destino di sofferenza, sperano, in gran parte, in una convivenza pacifica e si adoperano affinché la prospettiva di “Due popoli, due Stati” non sia solo una vuota formula ripetuta per mero calcolo politico.
Tra questi costruttori di “ponti per la pace” si possono sicuramente annoverare i protagonisti del romanzo/saggio Apeirogon, vincitore del Premio Terzani 2022 dello scrittore irlandese Colum McCann. Si tratta di una storia vera, di personaggi viventi, di un dramma tragicamente unificante, quale può essere quello di due padri straziati da uno stesso lutto. Parlano di loro e del mondo che li circonda Bassam Aramin, palestinese, che ha perso sua figlia Abir di 10 anni, colpita alla testa da un proiettile di gomma sparato da un soldato israeliano diciottenne, e Rami Elhanan, israeliano, che ha perso sua figlia Smadar di 13 anni durante un attacco suicida di un gruppo di tre palestinesi.
Le due bambine Abir (“fragranza del fiore”, in arabo) e Smadar (“il fiore che si schiude” dal Cantico dei Cantici), entrambe emblema di innocente agnello sacrificale, sono narrate con toni di una dolcezza infinita, revocando un quotidiano ormai cancellato dalla macchina infernale della violenza, tramite oggetti (il coloratissimo bracciale di caramelle che Abir aveva comprato poco prima di morire) e sensazioni (le note di Sinead O’Connor che Smadar amava ascoltare). I due padri non appaiono come figure eroiche, statuarie, soprattutto mai assimilati agli stereotipi delle grandi figure genitoriali presenti in letteratura, ma come uomini comuni, lacerati, mutilati per sempre in una parte del proprio essere. La forza del libro, che rischiava di scivolare nell’abusato cliché dei nemici/amici, sta proprio in questo: nell’unire, tramite continui flashback, la piccola e la grande Storia con una tecnica narrativa volutamente frantumata e che, alla fine, rispecchia la non-normalità della vita sia degli occupanti, sia degli occupati.
Il racconto si snoda attraverso 1001 paragrafi (allusione alle Mille e una notte, opera spesso citata e che Rami era solito leggere a sua figlia), di cui alcuni composti da una sola riga, da una parola, da un’immagine o da uno spazio bianco. La narrazione non segue una linea cronologica, ma, quasi come in una spirale, analogicamente fa riemergere una miriade di aneddoti/personaggi storici, eventi di cronaca, foto, informazioni ornitologiche, geografiche e religiose come a voler conciliare infiniti punti di vista, inquadrando la realtà da tutte le angolazioni possibili. Il titolo Apeirogon (dal greco apeiron/ ἄπειρον infinito e dal tema γωνία /gonìa angolo), appunto, si riferisce ad una struttura geometrica infinitamente numerabile per lati. Questa prospettiva matematica, per così dire, riesce a conciliare la narrazione degli israeliani con quella dei palestinesi, soprattutto attraverso il dialogo di questi due padri, vittime e carnefici nello stesso tempo.
Bassam Aramin è stato torturato nelle carceri israeliane, ma ha deciso di studiare l’ebraico ed in Inghilterra ha redatto una tesi sulla Shoah; Rami Elhanan ha vissuto l’olocausto sulla pelle dei propri cari ungheresi e allo stesso tempo è sempre stato educato alla convivenza tra popoli. Racconta egli stesso nel libro che Yasser Arafat aveva inviato al funerale di Smadar un rappresentante personale e che il leader dell’OLP si riferiva al nonno materno di Smadar (membro del parlamento israeliano) con la formula “Abu Salaam” (padre della pace). Attualmente i due genitori, quali membri di varie organizzazioni (Combattenti per la pace / Parents circle) si recano in paesi diversi per ricordare le loro figlie e “predicare” la pace. Lo fanno chiamandosi “fratello”.
Adele Reale
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