PETRELLA SALTO (Rieti) – 25 aprile, Festa della Liberazione: più passa il tempo, più è importante ricordare, quando anche gli ultimi sopravvissuti non ci saranno più. La storia non va dimenticata ed è fatta anche di tanti episodi e persone sconosciute. Una di queste è Cleonice Tomassetti, una storia che ha quasi dell’incredibile e che conosciamo grazie al libro scritto da Nino Chiovini “Classe IIIB – Cleonice Tomassetti vita e morte”, basato soprattutto su testimonianze orali di chi l’aveva conosciuta, di chi fu risparmiato dal plotone d’esecuzione, confrontandole con i documenti. Chiovini era nato a Verbania nel 1923, ha partecipato alla guerra di liberazione nelle file della banda Giovine Italia e poi nella brigata Cesare Battisti. Il libro su Cleonice è del 1980, l’aula IIIB è quella delle scuole elementari femminili di Intra, trasformata in una prigione. In quarta di copertina, lo stesso Chiovini scrive: “Non è stato facile, a tanti anni di distanza dall’eccidio (un evento di cui gli unici documenti conosciuti erano le storiche fotografie e il diario del giudice Emilio Liguori), ricostruire la figura, la vita nei suoi tratti essenziali, gli ultimi giorni e le ultime ore di Cleonice Tomassetti, fucilata con altri 42 compagni a Fondotoce il 20 giugno 1944”.
In un paese carente di intitolazioni di luoghi pubblici, strade, scuole a donne, a Verbania nel 2005 è stata dedicata la scuola primaria del quartiere Sant’Anna a Pallanza a Maria Peron, infermiera partigiana; nel 1981 l’amministrazione comunale e quella scolastica hanno dedicato la scuola primaria di Renco-Richino, alle spalle di Intra, a Cleonice Tomassetti. Il comune di Petrella Salto le ha reso omaggio apponendo una lapide commemorativa al monumento ai caduti sulla piazza di Capradosso e una sulla sua abitazione in cima al paese.
Cleonice, penultima di sei fratelli, nacque il 4 novembre 1911 a Capradosso, piccola frazione di Petrella Salto, da una umile famiglia contadina. I terreni sono sassosi e duri da coltivare, il territorio ancora oggi è gravato da un forte spopolamento, il terzogenito Aldovino era già emigrato a Roma, poi toccò alla sorella Pierina. Cleonice frequentò fino alla quinta elementare, era intelligente, bella, aveva carattere e tempra. Terminata la scuola lavorò in casa e nei campi. La morte della madre, quando lei aveva appena 16 anni, segnò il suo destino, iniziato con la violenza nelle mura di casa, da parte del padre. Rimase incinta e fuggì a Roma dalla sorella. Un parto difficile e il bimbo non sopravvisse. Trovò lavoro come domestica, ma le violenze continuarono e dopo sei anni, nel 1933, andò a Milano dove fece lavori saltuari come cameriera o commessa.
Lì conobbe Mario Nobili un uomo di idee antifasciste, che lei condivide, dopo aver conosciuto la falsità e la violenza delle persone benestanti e i pregiudizi nei suoi confronti per aver avuto un figlio. Nobili, separato dalla moglie, faceva l’assicuratore, andarono a vivere insieme, frequentando amici di idee antifasciste, seppur non militanti. Mario morì di meningite nel 1944 a soli 36 anni. Cleonice andò a lavorare nella sartoria di Eugenio Dalle Crode, dove conobbe Sergio Ciribi, renitente alla leva, disse che sarebbe andato in montagna per raggiungere i partigiani. Cleonice aggiunse istintivamente “allora ci vengo anch’io”. Era convinta che ci fosse bisogno delle donne. Partirono qualche giorno più tardi. Pochi mesi prima Ciribi si era unito ai partigiani della formazione Valdossola attestata in Val Grande, venne imprigionato, ma liberato con l’aiuto dei genitori, con l’impegno che si sarebbe presentato al comando per la leva militare, cosa che non fece, ma non sapeva che l’11 giugno i nazifascisti avevano scatenato una massiccia operazione militare contro le formazioni partigiane che durò venti giorni.
Tra le testimonianze anche quella della mamma di Sergio, che accompagnò il figlio a Fondotoce e in quell’occasione conobbe Cleonice: “Mi fece buona impressione”. Fu la madre, tempo dopo, a riconoscere tra i sepolti di Fondotoce, i resti del figlio e di Cleonice. Decise di seppellirli insieme perché “erano morti nello stesso luogo”, inizialmente nel cimitero di Greco, poi al cimitero Monumentale nel campo della gloria. Cleonice, Sergio e altri partigiani furono catturati poco dopo la partenza, nel casolare dove avevano trascorso la notte per proteggersi dal temporale. Tedeschi e italiani si accanirono contro di loro, li picchiarono a calci e pugni, Cleonice si sentiva la loro protettrice e cercò di assumersi tutte le colpe (“Sono ancora ragazzi, la colpa è mia”), ma il suo atteggiamento non era affatto remissivo.
Fra i prigionieri c’era Mario Catena, combattente nel 15-18, iscritto al Pci, impiegato alle Ferrovie dello Stato, licenziato per motivi politici, che riferisce di aver visto entrare Sergio con il viso pesto e una “ragazza bruna, piacente, dallo sguardo ora dolce, ora fermo e pieno di fierezza, vestita modestamente, con una borsa di stoffa. Dal modo in cui camminava sembrava dolorante, sulla sua gonna erano visibili alcune macchie scure, ma sul viso non si notava alcun segno. Cominciarono a raccontare come furono catturati e percossi, mia moglie le portò dei vestiti”. Catena lo portarono in Germania, Cleonice e Sergio furono accomunati con una quarantina di altri partigiani catturati in Val Grande e in Val Loana. In tutto erano 43.
Nel pomeriggio vengono trasferiti nelle cantine di Villa Caramora, un edificio ottocentesco sul lungolago di Intra, sede provvisoria del comando tedesco. Era imprigionato anche il dottor Emilio Liguori (pretore di Intra, combattente della Grande Guerra, giudice istruttore al tribunale di Verbania, dopo la liberazione venne nominato presidente del tribunale di Verbania). Liguori scrisse “Quando la morte non ti vuole” (testo conservato presso il museo del paesaggio di Verbania), raccontando ciò che aveva visto: “Un sadico furore su quei corpi già devastati, con pugni calci, colpi di moschetto. Non un grido, non un lamento, fierezza. Cleonice faceva coraggio agli altri. Si alzò in piedi e disse ‘Su coraggio ragazzi, è giunto il plotone di esecuzione, niente paura, ricordatevi che è meglio morire da italiani che vivere da spie, da servitori dei tedeschi'”.
Fu picchiata e sputata in faccia, ma non si arrese e disse: “Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo: esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito vi dico che la vostra è opera vana: quello non lo domerete mai. Ragazzi viva l’Italia, viva la libertà per tutti”. Lo raccontò un poliziotto di Bolzano che accompagnò il corteo fino al luogo dell’esecuzione, cinque chilometri da Intra a Fondotoce. Alla testa del corteo Cleonice che stringeva la sua borsetta di stoffa. I prigionieri furono costretti anche a marciare con un cartello: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono banditi?”. Li fecero scendere e salire dagli autocarri per farli sfilare all’interno di ogni paese, con la gente nascosta dietro le finestre e altri che cercavano di scappare per non vedere. Le sue ultime parole furono “Viva l’Italia”.
Li fucilarono a gruppi di tre, lei fu la prima: “Mostriamo a questi signori come noi sappiamo morire”. Le salme dei 43 vennero lasciate esposte sul prato. L’eccidio di Fondotoce che non risparmiò volutamente una donna fu rispondente a una precisa logica intimidatoria. Su richiesta del comune di Petrella Salto, che voleva avere notizie biografiche, il padre rispose di non sapere niente, perché lei era stata a Roma e a Milano, però intascò il risarcimento dovuto ai familiari dei caduti.
Cleonice non aveva mai imbracciato il fucile e non aveva mai ucciso nessuno.
Francesca Sammarco
Nell’immagine di copertina. il corteo dei prigionieri prima dell’esecuzione: Cleonice è proprio sotto il cartello
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