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Christo, l’artista che “imballava” i monumenti

di | 2020-06-05T13:21:25+02:00 7-6-2020 6:20|Arte, Sezione 5|0 Commenti

SPOLETO (Perugia) – Un Tarzan, brutta copia del Johnny Weissmuller cinematografico, che si esibiva non sulle liane, ma su una serie di ponteggi e, di contro, a poche decine di metri di distanza, un palazzo del Quattrocento “impacchettato”, sull’intera facciata, fontana barocca compresa, costruita forse su disegno di Gian Lorenzo Bernini, in un gigantesco telo bianco – fremente ad ogni alito di vento tanto da apparire “vivo” – rimasto visibile per tre settimane, l’intera durata della kermesse. Nel 1968 si presentò così, con questo scioccante contrasto, il “Festival dei due mondi” di Spoleto al visitatore assetato di spunti culturali. Se l’Uomo scimmia strideva terribilmente con la patina intellettuale, ma anche elitaria ed aristocratica della rassegna creata da Gian Carlo Menotti, il talento del poco più che trentenne Christo Vladimirov Javacheff si inseriva organicamente nell’aria dell’innovazione, nel fervore rivoluzionario del mondo dell’arte e non, nell’idea della “fantasia al potere“ tutti aspetti che suonavano come linee guida di quella stagione creativa in quasi tutte le Arti. L’artista, bloccato in un altro “impacchettamento” di monumenti a Berna, non fu fisicamente presente nella città umbra e non vide mai la sua opera dal vivo.

L’idea di partenza, in realtà, prevedeva di imballare con un telo il Teatro Nuovo, ma per motivi di sicurezza le autorità non concessero il permesso. Si ripiegò allora, sul palazzo di piazza del Mercato e sul Fortilizio dei Mulini, torre medioevale. Fu sufficiente una telefonata. Sul posto, infatti, operò, sotto le strette indicazioni di Christo (ideatore e disegnatore) ma anche in piena sintonia, la moglie, Jeanne Claude Denat de Guillebon (attuatrice e organizzatrice), che condivideva la stessa nazionalità e la stessa età del compagno sebbene fosse nata in Marocco. Una bella donna, dai capelli folti e scuri, almeno in quegli anni e dagli occhi cerulei, informale nell’abbigliamento, molto volitiva. I due – conosciutisi a Parigi – vivevano insieme già da una decina di anni (raccontavano di essere nati pure lo stesso giorno e persino alla stessa ora, forse per evidenziare ulteriormente la loro unità di intenti nella vita e nell’esperienza artistica) ed insieme svilupparono, nel quadro di quella che venne definita la “Land art”, il progetto “Wrapped Objects”: un sodalizio continuato, attraverso la fondazione “Christo-Jeanne Claude”, anche dopo la morte di lei nel 2009.

Avvolgere – questo il tema conduttore – opere d’arte, monumenti, persino paesaggi con tessuti di enormi proporzioni. Come avvenne, successivamente, per siti naturali, quali la scogliera di Little Bay (Australia) ed un gruppo di isole lungo la costiera della Florida, dirimpetto a Miami. L’arte nel dopoguerra aveva cominciato a battere strade sconosciute prima ed originali. Ed il movimento rappresentato dai due coniugi francesi si era ribattezzato “Nuovo realismo”. Il 31 maggio scorso, nella sua casa di New York, è spirato, per cause naturali ad 84 anni, il maestro nato a Gabrovo in Bulgaria, ma cresciuto, da un punto di vista artistico tra Sofia, Praga, Vienna, Berna, Parigi, Firenze e la Grande Mela.

La grande maggioranza degli italiani scoprì Christo pochi anni fa quando l’artista varò, sul Lago d’Iseo, una passerella fluttuante di tre chilometri e mezzo: la “Floating piers” (pontile galleggiante). Era il luglio del 2016. Le cronache raccontano che un milione e mezzo di visitatori affrontarono, con emozione per molti indimenticabile, la singolare traversata lacustre tra Sulzano, Montisola e l’Isola di San Paolo.

Christo – questo, sin dal primo momento, era diventato “tout court” il suo nomignolo, il suo “marchio” – cominciò in pratica da Spoleto la scalata nel mondo dell’arte internazionale. In quel 1968 al Festival spoletino parteciparono anche l’architetto e filosofo statunitense Richard Buckminster Fuller (inventore della “cupola geodetica”) e Isamo Noguchi, scultore e architetto pure lui, americano, sebbene di origine giapponese da parte di padre, un poeta. Quelle proposte sperimentali calamitarono pure l’interesse del pittore Alberto Burri, che una ventina di anni dopo, nel Belice terremotato, realizzò “il Grande Cretto” di Gibellina, con una qualche assonanza alla “Land art”. Di Buckmeister Fuller rimane ancora la “Spoletosfera”, donata alla comunità spoletina in quel periodo.

Qualcuno sentenziò, non senza acrimonia, come la costruzione apparisse “una stramberia di quelli del Festival”. Intervistato sulle sue singolari creazioni d’avanguardia (che al tempo sollevarono persino irridenti commenti goliardici), Christo – magro, quasi ossuto, con lenti spesse da miope ed i capelli arruffati ed in disordine – spiegò: “Tra l’oggetto nudo e l’oggetto impacchettato si muove il mistero psicologico. La differenza tra l’allusione e l’affermazione, tra il condizionale e l’imperativo”. L’artista aveva in animo ed era pronto ad una nuova sfida: “coprire” con un immenso tessuto l’Arco di Trionfo, a Parigi. L’operazione è stata annullata in seguito all’esplosione della pandemia Coronavirus e rinviata al 2021. La morte di Christo non ha fatto saltare del tutto il progetto che, invece, vedrà la luce a settembre del prossimo anno. Una sorta di metafora. Perché gli artisti sottostanno, pure loro, alle leggi della natura, ma la loro arte sopravvive.

Elio Clero Bertoldi

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