PERUGIA – Addirittura ben due volte i suoi resti mortali sono stati trafugati: nel 1327, 31 anni dopo il decesso, e nel 1988, 34 anni fa. Celestino V, proclamato Santo e patrono di diverse città (L’Aquila, Isernia, Urbino, Ferentino) e di una regione (il Molise) non ha avuto pace neanche da morto, nonostante fosse un eremita, proveniente da famiglia povera e di campagna, lontano le mille miglia dalle beghe del mondo. La prima volta il “rapimento” fu attuato per ragioni religiose – intenso, all’epoca, risultava il traffico delle reliquie – da tre frati celestini, congregazione domenicana fondata proprio dal monaco molisano; la seconda, invece, fu opera di un paio di balordi aquilani che avrebbero voluto guadagnare un cospicuo, sostanzioso riscatto e che, invece, non incassarono nulla, ma almeno si salvarono dal carcere e non subirono punizione alcuna, forse scambiando l’immunità con il rivelare e l’indicare agli inquirenti il loculo in cui avevano nascosto i miseri resti in un cimitero di paese a Rocca di Passa, frazione di Amatrice.
Pier da Morrone, così veniva chiamato Pietro Angelerio (nato intorno al 1209 e spirato nel 1296, da prigioniero nel castello di Fumone), era l’undicesimo dei dodici figli di due contadini: Angelo e Maria Leone di Sant’Angelo Lomisano, dove – dicono alcuni documenti – venne alla luce. Avviato alla vita religiosa, Pietro si era ritirato in una grotta quasi inaccessibile sul Monte Morrone, sopra Sulmona, da cui si allontanò per completare gli studi e per prendere gli ordini sacerdotali a Roma. Però tornò subito nella sua montagna, scegliendo di abitare in una spoglia, fredda caverna, tra i dirupi, nelle vicinanze della chiesetta di Santa Maria di Sagezzano. Più tardi si trasferì in un altro luogo ancor più selvaggio e fuori mano in località Sant’Onofrio.
Per evitare la soppressione, che alcuni cardinali in concilio sollecitavano, della sua congregazione (riconosciuta ufficialmente dal pontefice nel 1244), l’eremita, a piedi, raggiunse, nel 1273, la lontana Lione. Ed ottenne quanto desiderava da Gregorio X, che volle fosse proprio il frate, già in odore di santità, a celebrare la messa davanti a lui ed ai partecipanti al concilio. Nel 1294, dopo una serie di votazioni (durate 27 mesi, a partire dal 1292, a Roma) senza che si raggiungesse un accordo sul papa da eleggere, quando il re di Napoli Carlo d’Angiò e suo figlio Carlo Martello, irruppero in San Lorenzo di Perugia, dove erano in corso le operazioni di voto (non era ancora stato varato il conclave e il sacro collegio si era spostato in Umbria l’8 ottobre del 1293, in seguito alle vane, infruttuose sedute romane, nel cui agro per di più, era esplosa la peste), gli undici principi della chiesa – per sottrarsi alle pressioni delle teste coronate francesi e napoletane, soprattutto e non mettendosi d’accordo sulla figura da eleggere al trono papale, spaccati come erano tra i propugnatori degli Orsini e i sostenitori dei Colonna – pensarono ad una scelta esterna al Sacro Collegio.
Venne eletto così, il 5 luglio 1294, Pietro da Morrone su proposta del cardinale Latino Malabranca Orsini e sotto la regia di Benedetto Caetani. Quando gli inviati dei porporati (oltre ai due citati, gli aventi diritto alla elezione erano Gerardo Bianchi di Parma, Giovanni Boccamazza di Roma, Matteo d’Acquasparta di Todi, Hugues Aycelin de Billom di Francia, Piero Peregrosso di Milano, Matteo Rubeo Orsini di Roma, Giacomo Colonna di Roma, Napoleone Orsini di Roma e Pietro Colonna di Roma) recarono la notizia all’anziano romito – in quel momento nell’impervio eremo di San Giovanni all’Orfento – questi non accettò e si ritirò, solitario, in preghiera e digiuni, come era solito fare. Solo dopo molte ore e insistenti inviti a fornire una risposta positiva, il monaco finì per pronunciare un sofferto “sì”. Tuttavia non volle salire a Perugia, come da prassi. Furono i cardinali a spostarsi.
Pietro venne prima nominato vescovo e subito dopo, nella basilica di Collemaggio a L’Aquila, fu incoronato papa (29 agosto 1294). Il governo della Chiesa, che si era trasferito a Napoli, di Celestino V durò 161 giorni: l’eremita non resse i giochi di potere interni ed esterni alla Curia e, su consiglio del Caetani, che preparò, da buon giurista, il testo della rinuncia, si dimise. Fu proprio il cardinale di Anagni a succedergli, col nome di Bonifacio VIII. E fu sempre il Caetani, l’ex amico e consigliere, a farlo imprigionare nel castello di Fumone, proprietà del proprio casato. L’ormai malato ed anziano anacoreta tentò una fuga pensando di poter tornare alla vita eremitica, magari in una qualche sperduta località del lontano Oriente, ma il 16 maggio 1295, venne rintracciato e catturato a Capua da Gugliemo D’Estenand e condotto, prima ad Anagni, nei palazzi del Caetani e quindi di nuovo rinchiuso a Fumone. L’anno dopo Pietro si spense nel castello-prigione: chi disse di morte naturale, chi parlò (i più) di morte violenta, eseguita da sgherri su mandato del nuovo pontefice, che non gradiva ombre di papi emeriti, sia pure dimissionari, sul proprio ministero.
La salma venne tumulata nella cappella del monastero dei celestini dedicata a Sant’Antonio Abate, appena fuori le mura di Ferentino. Vescovo e popolo ferentinati pretesero che le spoglie venissero, tuttavia, traslate in città, per poterle difendere meglio ed in effetti furono spostate nella chiesa di Sant’Agata, presidiata – più che custodita – da monaci celestini e da popolani ed armigeri. Nonostante le precauzioni messe in opera e la guardia armata, nel gennaio del 1327, tre confratelli del deceduto con uno stratagemma, fecero uscire i resti, avvolti in un lenzuolo e infilati in un materasso, dalla chiesa. I tre religiosi – Biagio da Forcapalena, Pietro da Rasino e tale David – furono agevolati nel compito anche dall’attacco che Anagni portò, proprio quel giorno, a Ferentino, ponendo d’assedio le mura cittadine. Il terzetto di celestini, così, guadagnò un buon margine di vantaggio e, col prezioso carico sulla groppa di un mulo, attraversò i monti Ernici, lungo il percorso accidentato e innevato atteaversando Veroli, Badia San Bartolomeo di Trisulti, Filettino, Collelungo, fino a giungere a L’Aquila, dove ad attenderli si mosse, con gran seguito di folla, il Priore, Giovanni da Spoleto. Correva il 27 gennaio 1327.
I festeggiamenti aquilani andarono avanti, tra il giubilo del popolo, per settimane. A parte gli aspetti devozionali, infatti, possedere e offrire alla vista dei fedeli i resti, ritenuti miracolosi, di un santo, recava potere e ricchezza economica all’intera comunità. A Ferentino – e il particolare assunse i contorni di un prodigio – rimase, del tutto casualmente, il cuore incorrotto del santo eremita, all’evidenza sfuggito, nella concitazione e nella fretta dell’impossessamento del corpo, da parte dei tre monaci autori dell’audace espediente.
E questa preziosa reliquia evitò, dopo le prime vibranti proteste della città derubata, che potesse registrarsi una guerra tra la Ciociaria e l’aquilano: ogni comunità, in fondo, poteva gloriarsi della propria reliquia!
Elio Clero Bertoldi
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