MILANO – Nei giorni scorsi la notizia della grazia concessa con decreto presidenziale a Serghei Khadzhikurbanov, ex agente dei servizi speciali russi condannato per il suo coinvolgimento nell’assassinio (2006) della giornalista Anna Politkovskaja, ha suscitato grande indignazione. Le motivazioni di tale provvedimento sono incentrate sull’eroismo del militare Khadzhikurbanov durante alcune azioni di guerra in Ucraina, in quella che Putin continua a definire “operazione militare speciale”. Nonostante la pena inflittagli dovesse estinguersi nel 2034, la sua permanenza in prigione era stata già sospesa a seguito della legge che ha consentito ai detenuti russi di arruolarsi per il conflitto tuttora in atto. È accertato, del resto, che la milizia Wagner continui a fare proseliti tra la popolazione carceraria.
Sgomenti ed addolorati per l’accaduto, i figli della Politkovskaja e il comitato editoriale di Novaya Gazeta, il giornale di opposizione per il quale la reporter lavorava, hanno parlato di “una mostruosa ingiustizia e arbitrarietà, un oltraggio alla memoria di una persona uccisa per le sue convinzioni e lo svolgimento del suo dovere professionale”. L’episodio induce a riflettere, tra le altre mille sfaccettature, in particolare su due aspetti fondamentali: da una parte la necessità consapevole di una memoria storica sempre vigile e dall’altra l’uso strumentale e personale di istituti giuridici, in assenza di democrazia.
Il potere di concedere la grazia ha origini molto antiche: già il codice di Hammurabi del XVIII secolo a.C. prevedeva la possibilità di perdono della moglie adultera ed istituti analoghi di clemenza sono riscontrabili nelle civiltà successive. Solo in Grecia i provvedimenti di concessione della grazia non godevano di molto favore, perché qualunque atto che comportasse l’impunità di un accusato o di un condannato era percepito come un pericolo per la democrazia, anche perché finiva col legittimare l’esistenza di una figura o istituto con la facoltà di esercitare un potere maggiore rispetto a quello degli altri. Nel corso dei secoli l’evolversi delle istituzioni in senso democratico e parlamentare ha teso soprattutto a conciliare l’antica nozione di atto di prerogativa regia o comunque di un potere monocratico con la presenza di altri organi che fossero garanti di terziarietà.
In Italia nel dibattito dell’Assemblea Costituente prevalse, infatti, l’idea – già nello Statuto Albertino – di non concedere al Capo dello Stato dei poteri incontrollati e incontrovertibilmente personali. Attualmente l’art. 87 della Costituzione prevede, al comma undicesimo (“Può concedere grazia [174 c.p.; 681 c.p.p.] e commutare le pene”), che il Presidente della Repubblica possa, con proprio decreto, concedere grazia e commutare le pene; il procedimento di concessione della grazia è, altresì, disciplinato dall’art.174 del codice penale e dall’art. 681 del codice di procedura penale. Quando al contrario l’orologio della Storia si ferma o, peggio, ritorna indietro si assiste al triste spettacolo di tiranni che graziano reietti assassini al loro servizio e sempre pronti, con il loro turpe agire, a consolidare un potere arbitrario che gronda sangue di innocenti.
Il secondo punto di riflessione rimanda al dovere civico e morale di ricordare, di non dimenticare per una libertà responsabile e per impedire il ripetersi ciclico di drammi singoli o peggio di stragi collettive, contrastando qualsiasi mentalità violenta e prevaricatrice. In una sorta di dimostrazione per assurdo si potrebbe partire dalla cosiddetta damnatio memoriae (condanna della memoria), termine non presente nel diritto latino, ma che di fatto si concretizzava nella pena della cancellazione della memoria di una persona e la distruzione di qualsiasi traccia che potesse consentire il suo ricordo tra i posteri, come se non fosse mai esistita. Istituto presente anche in altre civiltà; in Egitto, ad esempio, il tempio di Hatshepsut (regnante dal 1479 al 1458 a.C.) a Deir el-Bahari, a Tebe, sulla sponda ovest del Nilo, è forse uno dei casi più famosi: statue rimosse, frantumate o sfigurate consentirono la cancellazione totale della regina-faraone Hatshepsut dai monumenti, eliminando la sua figura e i suoi cartigli.
Nel mondo romano sono stati molti gli imperatori colpiti dalla damnatio memoriae: basti citare, tra gli altri, Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo, Massenzio. La stessa condanna fu comminata anche a uomini e donne che ricoprivano ruoli importanti come Seiano, prefetto del pretorio dell’imperatore Tiberio, oppure la madre di Nerone, Agrippina, o ancora Geta, fratello di Caracalla che lo fece assassinare e fece in modo che se ne perdesse ogni traccia. Sul famoso “tondo severiano” (collezione Antikensammlung Berlin). che raffigura la famiglia dell’imperatore Settimio Severo, il volto di Geta appare cancellato; parimenti il nome di Geta è stato fatto “sparire”, sempre da Caracalla, dall’arco del padre Settimio Severo nel foro a Roma, mentre la sua figura è stata abrasa dall’arco severiano di Leptis Magna, in Libia.
Il secolo scorso e quello in cui viviamo non hanno avuto bisogno della condanna della memoria, dal momento che il perpetrarsi di genocidi, guerre, immotivate violenze individuali e di genere ha portato alla completa cancellazione di milioni di individui. Le guerre dei nostri giorni sono, ove fosse possibile, ancora più assurde dal momento che non si prefiggono una fine, un patto, un trattato, ma mirano all’annientamento totale dell’altro, con stragi spietate di civili inermi, soprattutto bambini. Il filosofo Massimo Cacciari sottolinea la necessità urgente che il conflitto arabo-israeliano venga riportato sul piano laico e politico “bisogna arrivare a patti, alla pace, la recta intentio (corretta finalità, San Tommaso) deve guidarci” ed indica la via diplomatica per far cessare le ostilità tra Israele e Palestina. Mentre le guerre non si fermano e la diplomazia continua a balbettare, ci si può solo augurare che la damnatio memoriae divenga una sorta di buco nero in cui far sparire per incanto tutto il peggio del nostro mondo: ci sarebbe tanto da cancellare e per sempre.
Adele Reale
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