L’Italia del calcio fuori dal Mondiale per la seconda volta consecutiva. Nessuno si azzardi a parlare di tragedia (che sono ben altre, come abbiamo imparato sulla nostra pelle da due anni a questa parte), piuttosto è semplicemente una sconfitta sportiva, anzi una disfatta. Certamente dolorosa, durissima da digerire, per certi versi anche sconcertante, ma bisogna fermarsi lì: tra Covid ancora presente (sebbene meno aggressivo) e la drammatica guerra in Ucraina, i motivi di vera preoccupazione sono ben altri.
Insomma, gli Azzurri resteranno a casa a guardarsi in tv, come tutti noi, la rassegna calcistica (in programma in Qatar in dicembre) più importante del pianeta. Epilogo inaspettato, tanto più dopo l’esaltante successo ai recentissimi Europei culminato con l’exploit nella finale di Wembley e la vittoria ai rigori contro i padroni di casa. Sembrava completamente dimenticata la disfatta di 4 anni fa quando fu la Svezia ad estromettere la Nazionale, allora guidata da Ventura. Il nuovo Ct Roberto Mancini era riuscito in un tempo abbastanza breve a costruire un gruppo di giocatori di buona qualità, dando un gioco e soprattutto un’anima a quella squadra.
Insomma, il superamento della fase di qualificazione doveva essere una semplice formalità. E invece è accaduto l’irreparabile: due rigori sbagliati contro la Svizzera, uno in trasferta e uno in casa e secondo posto nel girone con la conseguenza di dover partecipare ai play off. Il cui programma prevedeva lo scontro interno contro la Macedonia del Nord (entità calcistica abbastanza irrilevante) e, in caso di vittoria, trasferta contro la vincente di Portogallo – Turchia. I pensieri erano tutti indirizzati alla seconda gara perché il primo match non poteva e non doveva costituire ostacolo di cui preoccuparsi troppo. Non è accaduto, come ben sappiamo, e adesso bisogna interrogarsi sul perché.
Le ragioni sono molto profonde e vanno ricercate nel passato. Innanzitutto, è errato ritenere che la squadra di luglio a Londra e quella di qualche giorno fa a Palermo fossero la stessa. Rispetto all’intero percorso dell’Europeo, sono mancati alcuni giocatori fondamentali e decisivi: i difensori Chiellini e Bonucci (il cui carisma in campo talvolta vale più del gesto tecnico), ma soprattutto Spinazzola e Chiesa, capaci con le loro accelerazioni di spaccare le difese avversarie. Inoltre, va detto con onestà che nel cammino della scorsa estate all’Italia andò davvero tutto bene: il successo con la Spagna, per esempio, a capo di un match soffertissimo in cui erano gli iberici a meritare il passaggio di turno. Ma il calcio è anche questo: non sempre vince il più forte o chi ha fatto di più in quella specifica partita. Inoltre, l’attuale stato di forma di diversi (troppi) azzurri è solo lontanissimo parente della condizione estiva. Mancini non aveva grandi scelte, ma di certo ha pagato carissimo diversi debiti di riconosenza verso alcuni giocatori e soprattutto negli ultimi impegni non ha saputo dare né un gioco, né (soprattutto) un’anima alla sua squadra.
Ma queste sono le condizioni al contorno: nonostante tutto, l’onesta Macedonia era abbondantemente alla nostra portata. Perché si è perso, allora? Per una ragione molto semplice: il calcio italico difetta di talenti veri, soprattutto in attacco. La dimostrazione più lampante arriva dal comportamento dei club nelle coppe europee: quest’anno, come peraltro anche nel passato recente, nessuna compagine ha raggiunto i quarti di finale della Champions League; restano in competizione l’Atalanta in Europa League e la Roma nella neonata Conference League. Davvero troppo poco. Per di più, spesso viene proposto calcio antico: il confronto con altre leghe europee è impietoso. Le prime quattro in classifica in Italia farebbero molta fatica a conservare la medesima posizione in Inghilterra o in Spagna o in Germania: questa è la triste verità. Un calcio ricco solo di debiti e di presunzione, al quale peraltro della Nazionale interessa poco a quasi tutti, in primis i club che pensano a difendere esclusivamente i propri interessi.
E il discorso va ampliato soprattutto a livello giovanile perché è lì che si formano i campioni del domani. Da noi, si investe poco sulla crescita: conta esclusivamente il risultato, a tutti i livelli e in ogni categoria: anche fra i Pulcini (bambini di 8-10 anni). I genitori reclamano e protestano se non si vince, le società accettano (perché incassano), gli istruttori si adeguano. Meglio un ragazzino pescatto chissà dove in Africa che puntare a far crescere un talento nostrano, al quale peraltro frotte di procuratori (meglio, affaristi) si affretteranno a proporre già a 13-14 anni contratti, sponsorizzazioni, consulenze e promesse: tante promesse. La conseguenza è molto semplice: di top player ce ne sono pochi in giro e, ancor più grave, se ne vedono pochi all’orizzonte. Ci vogliono tempo, investimenti e tanta pazienza prima di raccogliere qualche frutto.
Il discorso sarebbe troppo lungo, ma le basi vanno poste subito, altrimenti di Macedonie del Nord ce ne saranno ancora diverse altre. Un’ultima considerazione: di fronte ad una simile disfatta, i capi dovrebbero prenderne atto e avere il buongusto di dimettersi, a cominciare dal presidente federale. Ma in Italia, troppo spesso, alla poltrona si resta attaccati anche di fronte all’evidenza più sfacciata.
Buona domenica.
Nell’immagine di copertina, la gioia dei macedoni e la delusione di Tonali
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