TARANTO – Ciò che gli antichi romani chiamavano res communes omnium non erano, come un’incauta traduzione letterale potrebbe indurre a pensare, cose di tutti, ma di nessuno. La differenza è sostanziale: se i pesci del mare sono di nessuno, possono essere catturati senza problemi, con qualunque mezzo; se la spiaggia è di nessuno, è possibile costruirci sopra tranquillamente una villa… Da questi pochi esempi si deduce un’altra importante caratteristica delle res communes omnium: potevano essere privatizzate e diventare proprietà di un singolo (res privatae).
Oggi non siamo disposti a considerare “di nessuno” il mare e le sue rive o l’aria che respiriamo o un ghiacciaio: invochiamo, anzi, che, in quanto “beni collettivi”, essi siano adeguatamente protetti e tutelati. Oggi, che si è affermata la consapevolezza della limitatezza delle risorse naturali e della fragilità dell’ambiente in cui viviamo, perché l’apparente “insensibilità” degli antichi nasceva dalla convinzione che alcuni “beni”, apparentemente disponibili in quantità illimitata, non potevano divenire oggetto di diritti individuali o collettivi né, di per sé, causa dell’insorgere di conflitti di interesse.
Tale “insensibilità” è solo apparente, però. Il concetto di “bene collettivo” (res publicae) era infatti molto sentito: strade, teatri, porti, terme, stadi, per tutta l’età repubblicana e durante il primissimo impero, erano considerati proprietà intangibile della collettività. Nerone, per aver incautamente trasferito al Fiscus (il patrimonio dell’imperatore) beni che afferivano all’Aerarium (il patrimonio dello Stato), segnò di fatto la sua fine, spingendo il Senato a stabilire con Galba accordi per detronizzarlo. La res publica poteva venire assentita in concessione (proprio come avviene oggi), ma la proprietà era e doveva restare del popolo: “res publica res populi” sentenziava Cicerone.
Il diritto romano tutelava, dunque, le res privatae e le res publicae, ma non si occupava affatto delle res communes omnium. Non sempre e non a tutti, però, il disinteresse dimostrato per le “cose di nessuno” appariva tollerabile. Orazio, per esempio, sottolineava che i moli, così numerosi, riducevano lo spazio vitale dei pesci; Sallustio inveiva contro il mal vezzo di spianare colline per costruire ville sfarzose; Varrone criticava Lucullo, che aveva fatto eseguire dei lavori idraulici al solo scopo di far circolare l’acqua nelle sue piscine; Valerio Massimo si scagliava contro Sergio Orata, che aveva fatto modificare un tratto costiero per allevarvi dei pesci; Seneca, infine, così sbottava: “Dico a voi, il cui lusso non è meno esorbitante dell’avidità di quegli altri. Fino a quando ci sarà un lago in cui non si specchieranno le vostre ville? Un fiume sulle cui rive non s’innalzeranno i vostri palazzi? Dovunque scaturiranno polle d’acqua termale ivi costruirete nuove lussuose abitazioni. Dovunque il lido si piegherà in un’insenatura voi getterete nuove fondamenta. E, non contenti della terraferma, costruirete anche sul suolo artificiale che avrete sottratto al mare. A che servono tante stanze? Ne basta una per dormire. Non sono vostre quelle dove non siete!»
E oggi? Oggi Orazio, Seneca, Sallustio resterebbero a dir poco sconcertati, allibiti per lo scempio che l’uomo moderno ha perpetrato a danno delle coste, dell’aria, dei fiumi e delle foreste. Magra consolazione sarebbe per loro prendere atto del fatto che, almeno formalmente, sul piano del diritto, le res communes omnium non sono più considerate “cose di nessuno” ma “cose di tutti”, da salvaguardare come il bene più prezioso. Quanto tempo ci vorrà perché questa evoluzione ideologica si traduca in azione politica ed in responsabili comportamenti individuali?
Riccardo Della Ricca
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