TREIA (Macerata) – La vicenda che emerge da antiche pergamene ingiallite e redatte in gotico e da più mani, appare curiosa, affascinante, seducente. Narra di una accusa mossa ad un perugino di otto secoli fa che risulta pesantissima e disonorevole: imputato di “corruzione” per aver aiutato a fuggire dal carcere dov’erano ristretti il nipote di Federico II e il suo intero stato maggiore, in due processi – intentati a suo danno davanti a due diversi pontefici – che si conclusero, entrambi, con l’assoluzione. L’accusato, forte del doppio pronunciamento favorevole, tentò, orgoglioso com’era, di ottenere un risarcimento per i danni materiali e morali che quell’accusa infamante gli aveva causato, ma non sappiamo come quest’ultimo procedimento si sia concluso.
Un fatto storico interessante, sotto vari profili, risalente alla seconda metà del Duecento, scoperto nell’Archivio storico dell’Accademia Georgica (in precedenza, Accademia dei sollevati) di Treia in provincia di Macerata, nelle Marche, in cui sono riportati gli atti delle varie fasi dei processi che si susseguirono per oltre tre decenni. Le sedici pergamene (dodici metri di lunghezza lineare) sono state studiate dallo storico Alberto Meriggi che nel 1999 ne trasse una dettagliata relazione e non nascose di essere convinto, contrariamente ai verdetti assolutori, della colpevolezza dell’imputato. I protagonisti della complessa vicenda risultano essere la Comunità di Treia (all’epoca Monticchio, città guelfa), il podestà appena eletto della città marchigiana, Messer Baglione Baglioni di Perugia e Corrado di Antiochia, figlio di Federico (nato a sua volta, illegittimo, da Federico II, “stupor mundi”) e di Margherita di Poli dei conti di Saracinesco. Dai genitori Corrado aveva ereditato i titoli di conte di Albe, di Celano, di Loreto Aprutino, d’Abruzzo e di Calabria e una serie di territori sui Monti Ruffi, in Val d’Aniene, nella Marsica, tra il Lazio e l’Abruzzo.
Il “dominus Baglionus”, figlio di Guido, sul quale pendeva l’ignominioso sospetto, apparteneva alla terza generazione – almeno quella documentabile – della nobile casata perugina. Ebbe due figli, Giovanni e Guido ed un nipote Gualfreduccio di Giovanni che ricoprì cariche pubbliche a Perugia, a Fermo ed a Firenze (al tempo di Dante Alighieri). Non è nota né l’epoca, né la causa della sua morte. Presentava, il Baglioni, un ricco “curriculum vitae” avendo ricoperto la carica di podestà o di capitano del popolo a Foligno, a Narni, a Cascia, a Norcia, a San Severino ed a Visso ed aveva rifiutato, forse per motivi economici, le cariche che gli avevano offerto – come risulta dagli atti processuali – le città di Parma, Spello, San Sepolcro, Modena. Risulta, inoltre, aver svolto attività di paciere tra Perugia e Città di Castello, tra Perugia e Camerino, tra Bettona e Deruta (per una questione di confini), tra il duca di Spoleto e gli spoletini in frizione tra di loro. E qualche anno dopo la vicenda di Montecchio, “Dominus Baglionus” aveva ricevuto l’onore di accompagnare, come ambasciatore, il pontefice Gregorio X, da Marsciano ad Assisi.
Con “pedigree” di tale portata il nobile perugino venne chiamato a Treia con unanime consenso delle autorità cittadine e del popolo, perché risultava avesse esercitato le sue funzioni sempre “bene et legaliter”. Correva il gennaio del 1264. Poche settimane prima i treiensi avevano catturato Corrado di Antiochia che, alla testa di un esercito (in cui militava pure un forte contingente di soldati saraceni) cercava di conquistare alla corona sveva territori delle Marche, della Romagna, del Ducato di Spoleto, sui quali re Manfredi, anche lui un Hohenstaufen, rivendicava diritti ereditari. Gli abitanti si erano difesi dall’attacco con vigore e con coraggio e Corrado aveva cercato la via dell’accordo. Ma appena entrato nel “Castrum inferus” (oggi Porta Vallesacco) i difensori gli avevano fatto calare, alle spalle e all’improvviso, le grate della porta e avevano catturato, con questo stratagemma, lui ed i suoi più stretti collaboratori.
L’inganno era stato consumato nella seconda decade di dicembre del 1263. L’importante prigioniero, che rappresentava anche una garanzia in caso di ulteriori assalti dei ghibellini, era stato rinchiuso, con i ceppi ai piedi, nella prigione del Cassero, guardato a vista da un presidio di sentinelle con alla testa un capitano, tutti pagati dall’erario pubblico cittadino. Dopo un mese o due (le fonti non sono concordi sul punto) la clamorosa fuga di gruppo. Le autorità comunali e lo stesso popolo alla notizia dell’evasione, insorsero. Una folla minacciosa e imponente si accalcò davanti al palazzo del Podestà. Narrano le cronache che i contestatori – armati di lance, scudi, spade e balestre – gridavano “A morte, a morte…”. Il Baglioni, assediato, si affacciò – mentre le campane dell’allarme continuavano a suonare a tutto spiano – alla finestra nel tentativo di parlamentare. Non ci riuscì. Tanto forti il rumore e le grida della folla inferocita. A quel punto l’assediato ritenne opportuno farsi uccel di bosco e, attraverso un passaggio segreto, scappò e si diresse a Camerino, dove trovò protezione.
I rivoltosi, nel frattempo, sfondarono le porte ed irruppero nel palazzo, dove, non trovando più il podestà, si diedero al saccheggio, sfogandosi sui beni e sugli arredamenti e predando tutto il materiale di pregio, tra cui – lo si legge nel minuzioso elenco redatto dallo stesso Baglioni ed allegato al processo – due cavalli di gran valore (tutti i membri della casata perugina coltivavano una passione particolare per questi animali, da guerra o da parata che fossero) ed una scacchiera con tutti i pezzi, di significativa rilevanza economica ed affettiva per l’ex podestà. Furono i montecchiesi a presentare denuncia alla Curia Romana con l’accusa di corruzione a carico del Baglioni ipotizzando che, “per culpa et negligentia”, avesse aiutato i detenuti a fuggire. Urbano IV (1195-1264, nato Jacques Pantaleon, francese), allora trasferitosi in Orvieto, convocò le parti in causa. Il Baglioni si presentò scortato da 80 aristocratici perugini, pronti a testimoniare in suo favore e con una scorta di 200 soldati. Il pontefice morì ad ottobre, ma fece in tempo ad assolvere, non trovando colpe contro di lui, l’imputato.
I montecchiesi tornarono alla carica con il pontefice Clemente IV (1204-1268, al secolo Guy Le Gros), eletto a Perugia, che affidò una seconda scottante indagine, prima al vescovo Manfredo dei Roberti e, successivamente, al cardinale di Albano. Ma pure questo pontefice assolse, con tanto di bolla, emanata nel 1268, il Baglioni. Forte della duplice assoluzione, l’orgoglioso aristocratico – il motto della casata suonava “Semper idem” (sempre lo stesso, immutabile) – intentò allora una causa nei confronti del Comune di Montecchio. Chiedeva di poter proseguire il suo incarico, che era stato interrotto bruscamente ed ingiustamente, per un altro anno ed otto giorni, come da patti stabiliti oppure di ottenere il versamento a suo favore di 800 libbre ravennati secondo quanto stipulato (altre 800 ne aveva incassate all’atto dell’insediamento, quale anticipo) e ulteriori 200 libbre per i danni materiali e morali subiti. Il Comune, di contro, sollecitava la condanna del podestà “traditore” degli accordi e dei giuramenti prestati a pagare 10.000 marche d’argento.
Il processo si arenò tra il 1268 ed il 1277 forse anche per il fatto che, in quegli anni tumultuosi, si susseguirono ben quattro papi (Gregorio X, Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI) e che la Chiesa si presentavano ben altri problemi da dirimere. Nel 1278, Nicolò III (al secolo Gaetano Nicolò Orsini, 1216-1280) affidò il delicato caso civile al cardinale Gerardo Bianco. La causa si rinfocolò con l’istruttore cardinal Savelli, sotto Martino IV (Simon de Brion, nominato anche lui da un conclave tenutosi a Perugia). I procuratori – i difensori, insomma – del Comune marchigiano furono tre in quell’anno: tale Passa, per un mese, poi Rainaldo di Moriconi ed infine Raniero di Camerino. I testi sfilarono sette anni più tardi (non si conosce il motivo del lungo ritardo), nel 1285, quando sul trono della Chiesa era seduto Onorio IV (Giacomo Savelli, 1210-1285). Gli avvocati del Baglioni citarono a deporre Nocchio di Guidetto di Perugia, Giovanni di Raimondo di Monaldo di Perugia, Giovanni di Bartoletto di Jesi, Mercatello di Pietro di Narni.
“Tutti della fazione ghibellina”, si lamentarono i patroni di Montecchio. I quali per cavilli giuridici o per ritardi burocratici non poterono far rilasciare alcuna dichiarazione agli iscritti nella loro lista testimoniale. L’ultima udienza (intanto si erano succeduti altri due pontefici: Nicolò IV, al secolo Girolamo Masci, 1227-1292 e Celestino V, il celebre Pier da Morrone, nato nel 1215 e morto, dopo “il gran rifiuto”, nella prigionia del castello di Fumone nel 1296), di cui si abbia notizia documentale, si svolse nel 1296, quando sul soglio pontificio si era insediato Benedetto Caetani, il celebre Bonifacio VIII (1230-1303). Negli atti processuali, a questo punto, si apre però un vuoto per cui non si conosce chi, delle due parti, ebbe, alla, la meglio nella lite civilistica. Probabilmente prevalse la tesi a favore del Baglioni. Il Comune di Montecchio ritenne, infatti, di essere rimasto vittima di una sorta di complotto ad opera dei “poteri forti” (i Baglioni, la fazione ghibellina, la stessa Curia Romana, pronta ad accogliere più le tesi dei “grandi” del tempo, che le argomentazioni di una piccola comunità). Resta in piedi pure il mistero dell’evasione di Corrado di Antiochia.
A Montecchio si dicevano certi che il traditore fosse il Podestà, che avrebbe chiamato “ad uno ad uno” gli uomini del presidio della prigione, sguarnendo il servizio di guardia e favorendo in questo modo il “blitz” dei ghibellini che avrebbero prelevato, dalla cella e senza colpo ferire, Corrado ed i suoi baroni, tutti ancora con le catene alle caviglie. Altri testimoni affermarono che le guardie erano state fatte ubriacare col vino, racconto in netto contrasto con la ricostruzione precedente. Altri ancora sostennero che l’evasione era stata portata a compimento “dalla solerzia dei suoi devoti” (suoi, quindi del detenuto), che sarebbero intervenuti come un odierno “commando” dei Seal, le forze speciali della marina statunitense, per liberarlo. Testimonianze insomma non concordi, non numerose e non univoche. E pertanto poco o nulla credibili per i giudicanti. Strano che, in città, nessun dubbio si fosse coltivato sul capitano del presidio carcerario e sui suoi militi, responsabili diretti della detenzione carceraria del nipote di Federico II.
Di certo una volta riacquistata la libertà, Corrado si slanciò, per vendetta, con le sue truppe sul territorio di Montecchio, devastò le campagne e si accanì in particolare sul rione in cui era stato catturato, che da allora si chiamò Vallesacco (valle del saccheggio). Di tutti i protagonisti, comunque, Corrado (1242-1320) fu il più longevo, nonostante la sua vita davvero avventurosa. Scomunicato tre volte; prigioniero in più occasioni (pare sia evaso quattro volte, compresa la fuga del 1263); fatto erede da suo zio, Re Enzo di Sardegna (lo sfortunato figlio di Federico II, imprigionato a Bologna in una torre, dove cessò di vivere senza mai più tornare libero); nominato da Manfredi di Sicilia principe di Abruzzo e suo braccio militare; combattente a Tagliacozzo a fianco dello jellato e giovanissimo cugino Corradino di Svevia (giustiziato a Napoli); raggiunto da un nuovo anatema (nel 1282); trasformatosi in corsaro predatore delle coste del sud Italia ormai in mano agli odiati Angiò e infine rintanatosi, arroccatosi quasi, nel suo feudo di Anticoli, in Val d’Aniene. La moglie, Beatrice Lancia figlia del gran maresciallo del Regno di Sicilia, Galvano, gli partorì otto rampolli (cinque maschi e tre femmine, tutti morti prima di lui; due femmine andarono spose ai fratelli Cangrande e Bartolomeo della Scala, signori di Verona) e passò a miglior vita, riconciliato con la Chiesa, a 78 anni. Nel suo letto.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, Palazzo Baglioni a Perugia
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