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Avvento, ecco il tempo dell’attesa

di | 2018-12-14T13:15:30+01:00 16-12-2018 6:30|Attualità, Sezione 7|0 Commenti

NAPOLI – “Il tempo dell’Avvento è il tempo dell’attesa” (don Luigi Giussani). Lo viviamo, distrattamente o meno; ne sentiamo parlare. C’è chi lo vive con fede chi invece ne avverte addirittura un fastidio. Ma cosa è e cosa c’entra questa attesa? Attesa di che, di chi? E perché tanto clamore o forse, che è più esatto, perché tanto silenzio e tanta indifferenza?

 

Tutta la vita è attesa. Spesso l’attesa la traduciamo in quello che pensiamo noi, nelle nostre idee, nelle nostre concezioni di bene, nelle nostre sensazioni o stati d’animo. L’avvento richiede, suggerisce, quindi, nell’attesa, una sorta di introspezione, una presa di coscienza, una ricerca. Suggerisce che il desiderio di un bene bisogna cercarlo, bisogna che ci si ponga quanto meno in posizione (attesa) che si manifesti. Tutto questo trova forme e aspetti inesorabilmente variegati. C’è chi aspetta la luce e chi, ahimè, le luci; c’è chi attende una risposta e chi desidera una tranquillità, che è anch’essa occasione di presa di coscienza, di “fare il punto”. E’ una storia, è una tradizione che si protrae nel tempo, da più di duemila anni. E’ una storia fatta di uomini che attendono instancabilmente una cosa più grande, una felicità, un compimento, un significato del tempo, nel tempo, il significato della felicità stessa, il significato della vita, il perché delle cose.

 

Don Giussani afferma che “la coscienza della definitività è come la coscienza di noi stessi: è permanente. Potrebbe essere già un esame di coscienza o un contenuto di contrizione per il suo sacrificio. La coscienza della definitività deve accompagnarci come l’autocoscienza di noi stessi, come la coscienza di noi stessi, come un’autocoscienza. Infatti, l’autocoscienza è consapevolezza di qualche cosa di definitivo, perché il nostro io è definitivo. Ma ancora più definitivo è il significato del nostro io”.

 

Perciò, la vigilanza è il tema che la Chiesa pone in capo al nostro nuovo anno di vita, come senso dell’imminenza della Sua venuta, come – perciò – attesa e desiderio della Sua venuta, che, per non essere superficiali e fatui, debbono nascere dalla contrizione, perché la nostra esistenza non vive così, vive meno di così, molto meno di così. Ma si può essere vigilanti anche se non si crede? Certo è che non si può essere in attesa di qualcosa o qualcuno se manca il fondamento di tale posizione, se manca un’oggettiva motivazione a tale posizione. Perché porsi un problema se tale problema rimane tale? Se non si aspetta non una soluzione ma il porsi in atto del problema, quindi ciò che è prima. Del resto la frase tipica è proprio “ma che senso ha porsi il problema, che senso ha fare un’autocoscienza. E di cosa poi? E perché.

 

A Napoli si dice “nun ce pensà” nel senso di suggerire uno stato di permanenza in un atteggiamento di superficialità verso tutto e tutti. Inutile porre domande sulla vita, sul senso della vita, o meglio sul Senso. Meglio andare a vento…

 

Ma ciò che costruisce l’umanità – insiste Giussani – non è ciò che le mani dell’uomo costruiscono, non ciò che il pensiero immagina e cerca di realizzare; il significato per cui il mondo si accosta, s’avvicina, s’approssima a un disegno mirabile e buono (dove tutto sarà ricondotto a unità), si attua attraverso la dedizione nostra al Senso di tutto. E a questo, soprattutto di fronte alla morte, non c’è risposta ragionevole”.

 

E allora se tutto non dipende anzitutto da te ed è possibile per te, in fondo, l’unica cosa che uno può fare è semplicissima: è riconoscere e accettare quanto meno quello che siamo. Questa, in fondo, è ciò che la Chiesa chiama penitenza: l’umiltà. Siamo niente: niente come creature. E non solo niente, ma un niente che tante volte ha dimenticato di essere niente e che tante volte, con cattiveria, ha voluto costruire lui.

L’unica possibilità che l’uomo ragionevolmente ha è questa attesa che è essenzialmente una conversione. Un’attesa per riconoscere che è solo un’illusione che riusciamo a gestire la vita, la nostra vita. Forse possiamo organizzarci al massimo una spesa o un viaggio. Poco altro. Ma l’attesa è anche accettare l’inatteso, l’imprevisto, un bene insperato. Questa accettazione è già l’inizio della conversione.

 

Innocenzo Calzone 

Giornalista pubblicista, architetto e insegnante di Arte e Immagine alla Scuola Secondaria di I grado presso l’Istituto Comprensivo “A. Ristori” di Napoli. Ha condotto per più di 13 anni il giornale d’Istituto “Ristoriamoci”. Partecipa e promuove attività culturali con l’associazione “Giovanni Marco Calzone” organizzando incontri e iniziative a carattere sociale e di solidarietà. Svolge attività di volontariato nel centro storico di Napoli con attività di doposcuola per ragazzi bisognosi; collabora con il Banco Alimentare per sostenere famiglie in difficoltà. Appassionato di arte, calcio e musica rock.

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