ROMA – C’è un momento preciso, nell’immaginario di ognuno di noi, che corrisponde a quando Romolo scavò una fossa per costruire le fondamenta di quella che sarebbe stata l’urbs, la città per eccellenza: Roma. E quel momento risale a quasi tremila anni fa, un arco di tempo che non ha tolto il fascino a questa bella signora, ombelico del mondo occidentale, culla di tutte le culture. Esso è stato individuato da Varrone – poi accettato da tutti gli storici – nel 21 aprile 753 a.C. Quest’anno, quindi, Roma festeggerà il suo 2774esimo Natale, come da sempre sin dai tempi di Ottaviano Augusto, che governò la Città a cavallo tra il I secolo a.C e il I secolo d.C. Quel giorno, in cui la storia iniziò ad intrecciarsi con la leggenda, Romolo pose le fondamenta e da quel fatto scaturirono i 144 anni di monarchia durante i quali sette re (Romolo stesso fu il primo di questi), governarono la città trasformandola da piccolo villaggio primitivo di pastori in una città con tanto di mura difensive.
Nel 509, giurando odio eterno contro ogni monarca, i romani proclamarono la repubblica e conquistarono tutti i popoli confinanti, poi tutto il mondo conosciuto. Ma in quella fase Roma era già diventata un Impero, venendo meno alla promessa di non essere guidata più dal potere di un solo uomo. Erano passati più di settecento anni da quando Romolo diede origine alla potente discendenza, alla gens da cui avrebbero voluto risalire tutti gli uomini che si sono seduti sul trono in capite mundi. Ottaviano Augusto che governò negli anni iniziali dell’era cristiana, istituì il dies Romae – il giorno di Roma – per celebrare i fasti della città e la sua progenie semidivina, iniziata dal troiano Enea e, passando attraverso i sette re, arrivata alla dinastia Giulio-Claudia.
Il 21 aprile 753, dunque, Romolo, contendendo il potere al fratello Remo, scavò una fossa e costruì un altare nel luogo dove sarebbe sorta la città. Momento cruciale, in una società semplice, al limite della sopravvivenza così come descritto con dovizia di particolari nel film “Il primo re” (regia Matteo Rovere, 2019), che dà delle origini di Roma una ricostruzione molto meno fiabesca, perché più dura e cruenta rispetto a quella riportata sui testi scolastici, ma molto plausibile. Va ricordato che mentre i romani vivevano in capanne e nel fango, vestivano di pelli di animali, nella civilissima Grecia Omero aveva già scritto l’Iliade e l’Odissea e le poleis avevano già colonizzato l’Italia del sud creando la Magna Grecia. Tornando alle origini di Roma, sicuramente i fatti di cui si parla erano e sono noti più meno a tutti, ma fino a tempi recenti erano considerati simbolici perché risalenti ad un periodo in cui Roma non aveva ancora la scrittura. La loro conoscenza nel tempo ci era pervenuta solo grazie a opere storiografiche successive.
Le origini, per questo, sono sempre oscillate tra realtà e fantasia, letteratura e storia. Un’oscillazione che è toccata anche a questa ricorrenza, che ha subito alterne vicende a seconda degli indirizzi politici e poi trovando una stabilizzazione solo ai nostri giorni. E comunque quella nebbia che per tanto tempo ha avvolto la nascita della Città alla fine si è dissolta. Non grazie alla scrittura, che di solito fa rientrare nella storia una civiltà, ma grazie all’archeologia, sua disciplina complementare che ha confermato il famoso gesto di Romolo: quello per scavare una fossa. Secondo studi compiuti negli anni ’80 del secolo scorso dall’equipe dell’archeologo Andrea Carandini, infatti, i ritrovamenti portati alla luce sul Palatino indicherebbero qui il primo insediamento dell’urbs e toglierebbero il racconto dei due gemelli semidivini, nati dalla vestale Rea Silvia e da Marte, dall’ambito mitologico con cui era stato sempre tramandato. Romolo e Remo, insomma, sarebbero vissuti veramente con tutto il corredo di informazioni che la leggenda si è portata dietro.
Subito dopo l’uccisione del fratello, Romolo tracciò un pomerium, un confine sacro e inviolabile e fondò un asylum per accogliere genti straniere tra i romani che abitavano nelle capanne di cui sono stati trovati i resti in quell’area. I discendenti di questi vennero chiamati quiriti, di cui ci sono molte tracce nella storia successiva, che si distinguevano dagli “immigrati” e dai nuovi cittadini che Roma non si fece mai scrupolo di accogliere. Dopo questo episodio iniziale, avvolto ancora nelle affascinanti nebbie della preistoria, tutto il resto è cosa nota, compreso il celebre ratto delle Sabine, deciso da Romolo per assicurare una progenie ai romani, un popolo di uomini senza donne. Il Natale di Roma, quindi, entrò a far parte del Mos maiorum – l’insieme dei valori romani – all’inizio dell’Impero quando si sentì la necessità di ripristinare la tradizione ed esaltare la discendenza dei governanti dalle origini fino all’insediamento di Ottaviano, il divino Augusto.
Con la caduta dell’Impero romano, però, questa ricorrenza cadde in disuso, e venne ricordata saltuariamente solo a Roma. Dal Medioevo in poi ebbe alterne vicende ma tornò ad essere una festa di rilevanza nazionale solo dopo l’unità d’Italia quando, nel 1870, il 23 aprile venne ufficializzato come ricorrenza. Durante il periodo fascista Benito Mussolini lo trasformò nella festa della romanità di cui egli stesso si considerava erede. Caduto il regime, però, il 21 Aprile fu nuovamente messo nel dimenticatoio. Solo negli ultimi anni, la giornata è stata rivalutata con eventi e manifestazioni, convegni, spettacoli. Quest’anno, per l’emergenza sanitaria, probabilmente non sarà possibile tributare gli onori che merita alla nostra capitale ma una promessa possiamo farla: di visitarne ogni angolo il più nascosto e solitario, le sponde del biondo fiume, le romantiche rovine e di meravigliarsi al cospetto dei suoi tramonti appena sarà possibile.
Nell’attesa, buon compleanno, Roma.
Gloria Zarletti
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