PALERMO – Delle preziose profondità oceaniche, che occupano circa il 71% della superficie terrestre, conosciamo un misero 5%: rimane sconosciuto il restante 95%, stessa percentuale della materia ignota che forma l’universo… Paradossalmente abbiamo informazioni più sulla consistenza dei suoli della Luna e di Marte che non dei fondali marini.
Per richiamare l’attenzione sul Pianeta blu, dal 1992 l’otto giugno si celebra in molti Paesi la giornata mondiale degli oceani, che le Nazioni Unite quest’anno hanno voluto celebrare con lo slogan “Pianeta Oceano: le maree stanno cambiando”.
Ecco cosa scrive la pagina web dell’Onu dedicata a tale ricorrenza: “Le maree stanno cambiando: per celebrare questa Giornata e il tema del 2023, Pianeta oceano, le Nazioni Unite stanno mettendo insieme le forze con decisori politici, scienziati, dirigenti del settore privato, rappresentanti della società civile, comunità indigene, celebrità e giovani attivisti per mettere l’oceano al primo posto”. “L’oceano copre la maggior parte della terra, ma solo una piccola parte delle sue acque è stata esplorata. Nonostante la totale dipendenza dell’umanità da esso e rispetto all’ampiezza e alla profondità di ciò che ci offre, l’oceano riceve in cambio solo un frammento della nostra attenzione e delle nostre risorse”.
Immensi benefattori dell’umanità – potrebbero essere considerati alla stregua di una superpotenza mondiale, poiché creano beni equivalenti a circa 2.500 miliardi di dollari l’anno – oceani e mari sono sempre più minacciati dalla pesca eccessiva, dal traffico marittimo, dall’inquinamento e dal cambiamento climatico. Un segno di speranza c’è stato il 5 marzo scorso, quando è stato firmato il trattato internazionale dell’Alto Mare, che prevede la tutela, entro il 2030, del 30% degli Oceani, con restrizioni che riguarderanno quote pesca, rotte marittime ed estrazioni minerarie.
Ma non si può attendere il 2030 per intervenire, e soprattutto per contrastare il grave pericolo dell’acidificazione degli oceani. In un’intervista al TG scientifico ‘Leonardo’ lo ha ribadito la dottoressa Cinzia De Vittor, ricercatrice all’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale: “Legato al cambiamento climatico, c’è il problema dell’acidificazione degli oceani, che assorbono oltre 24 milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2) ogni giorno, circa il 25% di quella che produciamo per l’uso dei combustibili fossili (soprattutto petrolio e carbone). Quando la CO2 viene a contatto con l’acqua si trasforma in acido carbonico e quindi determina un abbassamento del Ph oceanico. È così che, a partire dalla Rivoluzione Industriale, il pH delle acque marine è passato da 8,2 ad 8,1 unità… Un dato che erroneamente sembra piccolo, ma che è invece immenso e rappresenta un incremento di acidità oceanica del 30%, con proiezioni davvero preoccupanti per il 2.100, con un aumento atteso sino allo 0,3%…”.
Ma in cosa consiste esattamente il processo di acidificazione? Quali ripercussioni può avere sull’ambiente marino e quindi sulla nostra vita? Il pH è la misura dell’acidità di un gas o di un liquido, espressa come concentrazione di ioni idrogeno (H+). All’aumentare della concentrazione di H+, dunque, aumenta l’acidità del fluido e diminuisce il valore del pH.
Alterare l’equilibrio chimico delle nostre acque implica dunque, in questo caso, un aumento della concentrazione di CO2 in soluzione e la diminuzione del pH nella risorsa idrica. Questo significa mettere in pericolo tutte le forme viventi che vi abitano e che si sono sviluppate in un ecosistema con caratteristiche chimiche più o meno omogenee da migliaia di anni. Si tratta di un dato assai preoccupante per l’ambiente marino. Infatti, molti organismi acquatici (fitoplancton, zooplancton, alghe coralline, coralli, echinodermi e molluschi) si servono proprio degli ioni carbonato per costruire il proprio guscio, o altri elementi rigidi, tramite il processo biologico di calcificazione: se l’acqua risulta troppo acida, gusci e strutture similari si dissolvono o non si formano affatto. Quindi, moltissime forme di vita possono avere ridotti tassi di crescita, di sviluppo e di calcificazione, e minori possibilità di sopravvivere. Si sta già assistendo al deterioramento delle barriere coralline, che comporta la perdita di habitat e di risorse molti pesci e microorganismi.
Tutto questo avrà notevoli ricadute sulla nostra vita: il settore ittico sarà gravemente danneggiato dalla scomparsa di organismi che costituiscono, soprattutto in certe aree del pianeta, una risorsa primaria sia per i pesci che per le persone. Oggi, l’unica soluzione praticabile per fermare l’acidificazione degli oceani è quella di diminuire significativamente le emissioni di CO2: l’Accordo di Parigi del 2015 si propone proprio di attuare questo obiettivo, cercando di limitare il riscaldamento globale entro 1,5° di aumento di temperatura. Per diminuire le emissioni di gas serra nei 190 Paesi aderenti sono stati investiti 100 miliardi di dollari l’anno, dal 2020 al 2025. E si prevedono ulteriori investimenti dal 2025 in poi.
Ma tutto questo non basta se non si cambierà radicalmente il nostro stile di vita e di produttività: ci vogliono quindi cambiamenti di rotta coraggiosi, soprattutto a livello collettivo. Solo se tali cambiamenti ci saranno, si potrà sperare che tra qualche centinaia di anni le acque del pianeta tornino allo stato preindustriale. E i nostri pro-pro-pronipoti potranno ancora trovare poetica e sensata, senza maledirci per la nostra condotta pregressa, la lirica di Francesco Petrarca Chiare, fresche e dolci acque…
Maria D’Asaro
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