Il parco archeologico-naturalistico di Vulci, nel territorio di Canino e Montalto di Castro, in provincia di Viterbo al confine tra Lazio e Toscana, continua a proporre scoperte di eccezionale valore. Nei giorni scorsi, in località Ponte Rotto, durante gli scavi condotti dal dipartimento di studi umanistici dell’Università Federico II di Napoli in collaborazione con la Fondazione Vulci e la Soprintendenza, sono state aperte alcune antiche sepolture e riportati alla luce numerosi scheletri umani risalenti all’inizio del IX secolo a.C., quindi databili ad almeno 2900 anni fa. Secondo le dichiarazioni degli archeologi si tratterebbe degli scheletri etruschi più antichi mai rinvenuti nell’area vulcense.
Nell’ultimi due anni nella stessa zona sono state riportate alla luce e studiate cinque tombe a fossa e numerose sepolture che contengono ossa ben conservate di corpi, nella maggior parte dei casi distesi sul dorso e sul fianco. Attraverso questi reperti adesso sarà possibile studiare il profilo genetico di quelle genti e risalire addirittura all’origine dei primi abitanti di Vulci.
Il Dna ci potrà rivelare età, sesso e stato di salute dei defunti al momento della morte. Resti che potranno rispondere ad altre domande: le attività svolte in vita e i rapporti di parentela con gli altri individui. Accanto alle ossa sono stati rinvenuti anche alcuni importanti manufatti ceramici e metallici che al più presto verranno puliti e studiati. Tra questi un morso equino di bronzo a forma di cavallo, una punta di lancia in bronzo, diverse fibule di bronzo, qualcuna in argento, vasi di bronzo e di ceramica.
Lo scrigno di Vulci, il parco archeologico più grande dell’Etruria meridionale non finisce mai di stupire. E’ dell’agosto scorso la scoperta di un’urna cineraria a capanna risalente al IX secolo a.C. e di ben 88 tombe a pozzetto. E un mese dopo, durante la campagna di scavo effettuata dalle università tedesche di Friburgo e Magonza, i resti di un tempio risalente al VI sec. a.C.
L’ultima scoperta appare altrettanto sensazionale. “Il materiale scheletrico è ben conservato – ha spiegato il direttore dello scavo Marco Pacciarelli – e grazie a questo potremo effettuare studi molto accurati che ci consentiranno di scoprire molte cose sulle abitudini degli etruschi di quel tempo”.
“Grazie a questi numerosi resti – ha affermato il presidente della Fondazione Vulci, Carlo Casi – potremo studiare a fondo i primi abitanti di Vulci anche sotto il profilo genetico”. Dalle analisi gli esperti sperano anche di venire a conoscenza dell’area di nascita, della mobilità degli individui e soprattutto il profilo genetico dei primi abitanti della comunità etrusco-villanoviana di Vulci, importante città-Stato della dodecapoli d’Etruria.
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