Di Elena Carbutti – classe III sez. L
“Uomo del mio tempo”. Il tempo di Salvatore Quasimodo è passato da un po’, eppure le sue parole, le verità che esprimono si rivelano sfortunatamente immortali. L’uomo non è cambiato, questo ci vuole dire la poesia scritta da Quasimodo: l’uomo, la creatura superiore a tutte le altre creature, osannata come un genio, come un dio, è rimasto in realtà, nei reconditi dell’animo e del cuore, in quel luogo buio e pericoloso, il selvaggio ominide della preistoria, non dissimile dalla bestia che si diverte a governare. Alla fine, questo è il succo della poesia, il nocciolo della questione, l’origine di tante guerre, assassinii, morti, stragi, nient’altro che questo: l’uomo è riuscito ad ampliare oltre ogni immaginazione i confini in ogni tipo di materia, argomento, ambito, tranne quello che conta davvero e di più: quello umano. La poesia esprime in ogni parola un prezioso insegnamento, monito, tuttavia tra i versi, per me, ne spiccano di più alcuni. Il primo è “Sei ancora quello della pietra e della fionda”: così inizia l’autore, rivolgendosi all’uomo moderno, del suo tempo. Con questa frase, sfata già dall’inizio le storie, le credenze, la fiducia, la convinzione nelle doti umane, nel progresso infinito, indomabile dell’uomo; lo priva di tutte le sue scoperte, tutti i suoi meriti, tutte le formule scientifiche, tutte le parole, dietro cui nasconde l’animo brutale, l’istinto freddo, omicida, animale presente ancora nel suo essere, mai snidato da esso, come un’erbaccia che, con il tempo, non ha fatto altro che invigorirsi e crescere, mettendo radici nei meandri più profondi dell’animo. L’odio, la sopravvivenza, la vendetta, l’istinto, la violenza sono antichi quanto il mondo, forse anche di più, sono nati negli animali e nell’uomo hanno trovato il suo apice, perché l’uomo è consapevole di ciò che fa, sa che abbassando quel coltello sul petto dell’altro, il cuore dello sconfitto smetterà di battere, che avrà rubato una vita, una vita umana, a prescindere da quanto possa essere abbietto l’uomo a cui apparteneva. L’uomo è consapevole di ciò, eppure lo fa lo stesso, questa è la cosa peggiore: che sa ciò che fa eppure lo fa. Non c’è pentimento, esitazione, riflessione, per uccidere basta solo lasciarsi andare, permettere a quella pulsione antica di dettare legge, nel tuo cuore, nel tuo cervello, nel tuo corpo, è sfortunatamente, pericolosamente, banalmente semplice. E’ l’istinto. Nelle parole dell’autore vi è una sorta di cupa rassegnazione, di frustrazione, di stremata accettazione di questa verità: è un’affermazione costosa, salata, che bisogna forzarsi a fare, ad ammettere, perché anche quel senso di ingenuità e speranza è radicato nell’uomo e, forse per crudeltà, non fa che rendere più lacerante il dolore davanti all’evidenza. Questa frase è pronunciata da una persona che la guerra l’ha sentita sulla propria pelle, che ha pagato con l’anima, con i giorni che gli restavano, le atrocità, le aberrazioni, di cui l’individuo umano è capace e di cui si rende troppo spesso protagonista. “T’ho visto”, questa frase appare come una caricatura, una presa in giro alla guerra, alla morte, alle immonde pulsioni di sangue dell’uomo, che l’autore ha visto, è certo di aver visto, tanto certo da affermarlo, con tre incisive parole, che sembrano gridate, mentre si punta il dito contro il petto del colpevole. L’autore smaschera l’uomo, accusandolo apertamente e figurandolo come la morte, con le ali maligne e gli strumenti di sofferenza. L’uomo è al tempo stesso artefice e vittima, assassino e morto, è egli stesso a pugnalarsi, a mettere fine alla propria vita tramite quello del fratello. E’ l’uomo ad aver inventato l’assassinio ed egli stesso ne è vittima. Allucinante, no? Un’altra frase che mi ha molto scossa è stata “con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio”: la scienza dovrebbe aiutare l’uomo, permettergli di debellare malattie terribili, dare un senso alla realtà, far stare tutti bene, aiutare nella salvaguardia del Pianeta. La scienza deve essere volta al Bene, deve avere come scopo, come obbiettivo finale il benessere di ogni singolo essere umano in ogni luogo del mondo, in ogni tempo presente e futuro, è per questo che esistono i laboratori di ricerca, gli scienziati, per questo si investono fondi, tempo e fatica. Non certo per favorire una morte rapida e dolorosa, non certo per uccidere, per togliere la vita senza sporcarsi le mani. Eppure molto spesso la scienza è stata anche questo: pensiamo ai gas asfissianti, ai veleni… In che modo ci sono d’aiuto, come migliorano la nostra vita? Mettendole fine? Ma chi li ha inventati come diamine ha potuto non rendersi conto che in qualsiasi momento le armi che creava avrebbero potuto essere usate anche contro di lui, contro i suoi cari, contro i suoi discendenti? Questo solo vorrei chiedere loro, poiché, al contrario la risposta, a domande come “Non sapevi che con quelle armi si sarebbero uccisi tanti altri esseri umani, la cui unica colpa era quella di trovarsi lì, costretti, a combattere per qualcosa che nemmeno capivano?” mi sembra scontata: suppongo che sia io che voi la conosciamo. Chiunque abbia progettato quelle armi non è altro che un vile assassino -non si può non definirlo tale a mio parere-, egoista e fin troppo sicuro di sé, a tal punto da non pensare che quelle bombe ad orologeria che costruiva avrebbero potuto essergli lanciate addosso al minimo pretesto. Questo mi fa pensare al Coronavirus: su tutto girano delle voci, su ogni avvenimento, bello e brutto, su un matrimonio così come un funerale e di sicuro un fenomeno di tali proporzioni, ripercussioni sull’intero genere umano come il Covid-19 non può fare eccezione. Ebbene, secondo alcune voci si tratta di un virus creato in laboratorio, un’arma grezza da perfezionare e poi utilizzare in caso le tensioni tra USA e Cina si fossero acuite. Non so dire se è vero o solo un pettegolezzo senza fondamento… Eppure, se è vero, allora davvero l’essere umano è la più abbietta delle creature: davvero quella che stiamo vivendo era la situazione progettata per la potenza nemica in caso di guerra? Davvero tutte le sofferenze patite, tutti i morti, i lutti, tutto questo tempo in stand-by è il frutto della crudeltà umana, della volontà di distruggere un’altra persona solo perché apparteneva ala fazione nemica o perché, teoricamente, ne faceva parte? E le vittime collaterali? Quelle erano conteggiate? Noi siamo solo questo, per i demoniaci inventori di questo virus, persone sfortunate, nel posto sbagliato al momento sbagliato, danni accettabili purché raggiungano i propri scopi? Ripeto che non so dire se questa voce sia fondata, eppure se lo è, bè, allora non posso far altro che augurarmi che coloro che abbiano ordito questo telaio di stragi abbiano quantomeno imparato qualcosa da tutto questo e non compiano più il medesimo errore. Un’ultima parte della poesia di Quasimodo su cui vorrei porre l’accento è “Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali”. “Hai ucciso” è una semplice constatazione, pronunciata però con rabbia, amarezza, accusa e disgusto. Mi pare quasi di vedere l’autore articolare con le labbra queste due parole, la voce tonante, una smorfia di disgusto sul viso quasi a scagliarle come proiettili contro i colpevoli, macchiati ormai di una colpa incancellabile, un’ascia posta sulle loro teste che può cadere in qualsiasi momento, in questa vita mortale, o in quella eterna, ma comunque destinata a cadere prima o poi e a troncare in un secondo le loro esistenze. Quell’ “ancora, come sempre” rende l’aver ucciso quasi un’azione banale, tante sono le volte in cui è stata compiuta, afferma che le mani che si sono macchiate di sangue già da tempo non erano pulite e che era quasi destino che accadesse, era scontato, era normale. Vi è poi “come uccisero i padri”: questo mi ha molto colpito perché rende l’istinto di uccidere al pari di una tradizione da trasmettere e trasmessa di padre in figlio. I genitori dovrebbero volere solo il bene dei figli, dovrebbero trasmettere loro la passione per il calcio o per le auto da corsa, oppure per lo sport, dovrebbero insegnarli come maneggiare le posate, non certo il fucile, oppure come cucinare le ricette della nonna. Invece i padri citati, che rappresentano gli antichi, hanno inculcato la passione, l’ebbrezza per il sangue, per la morte, la fierezza della guerra e le tecniche di battaglia. Quale genitore lo farebbe mai? Solo uno per cui un figlio non è altro che carne da macello da cui trarre qualche soddisfazione inculcandogli la dignità di andarci con le proprie gambe, al macello, e di trascinarci quante più persone possibili. Infine, dice “come uccisero gli animali”: l’autore paragona l’uomo agli animali, l’essere umano tanto decantato alle belve; eppure l’uomo stesso non ripudia forse tutto se stesso colpendo l’altro, colpendo alla fine nient’altro che un suo riflesso, sperando chissà che facendo chiudere per sempre gli occhi di chi lo circonda non avrebbe mai dovuto fare i conti con quello che di sé stesso scorgeva nei loro occhi? Il poeta, poi, fa un chiaro riferimento a Caino ed Abele, forse origini di questo istinti violento che risiede nell’uomo. Caino uccise Abele, uccise sangue del suo sangue, carne della sua carne, tutto per invidia, per primeggiare, perché… Non lo capisco nemmeno il perché, forse perché un motivo non c’è, era solo sete di sangue e il destino dell’uomo è quello di uccidere, semplicemente. Eppure non vi è niente di semplice e di ogni omicidio compiuto, di ogni vita tolta, più che l’artefice, si cerca il motivo, le ragioni che vi sono alla base. L’essere umano alla fine non è ancora rassegnato al punto da considerare l’odio una parte integrante dell’uomo. Eppure io non posso fare a meno di chiedermi, leggendo questa poesia, è davvero così? O come dice Quasimodo, davvero l’odio e la violenza sono aspetti integranti, inevitabili e “normali” dell’animo umano? Io mi rifiuto di crederlo, perché altrimenti che senso ha la vita, che senso ha tutto questo se siamo destinati a sterminarci a vicenda? Nessuno, sarebbe solo un gioco perverso in cui le pedine sono destinate a eleminarsi vicendevolmente fino a lasciare vuota la scacchiera. Eppure, se davvero l’odio non è innato, possibile che l’essere umano non abbia ancora imparato quanto sia distruttivo? Quante guerre, quante morti, quante stragi dovranno avvenire prima che l’intera umanità, ogni singolo uomo si alzi in piedi gridando “Basta!”? Spero non troppe. Salvatore Quasimodo conclude la poesia con un monito a coloro che verranno, ai “figli”, ai giovani: il consiglio, l’ordine di dimenticare l’odio e la violenza, di dimenticare quanto insegnato dai padri, le cui tombe ormai si stanno disfacendo e il cui cuore oramai è solo oscurità e sofferenza. Quanto sarebbe bello se finalmente si decidesse di seguire questa raccomandazione.