di YUN ZHANG – Domus familiae habitaculum est, sicut urbs populi, sicut orbis domicilium totius generis humani. Scriveva Isidoro di Siviglia(560-636 d.C.) nelle sue Etymologiae. Ma che valore può assumere la parola ‘mondo’ per coloro che hanno veramente conosciuto il nostro globo, in tutte le sue molteplici sfaccettature? Cosa possono significare queste cinque lettere per Yun Zhang, studente della quarta ginnasio del nostro istituto arrivata ad otto anni in Italia dalla città di Xiamen sulla costa orientale della Cina?
Innanzitutto Yun, qual è la tua idea di mondo? Il mondo sembra, talvolta, un Colosseo moderno con spettatori affamati che non aspettano altro che vederti cadere sconfitto, il sangue che sgorga dalle ferite e l’umiliazione nel cuore fino a quando non si riceve il colpo di grazia, se sei fortunato. Altre volte pare così luminoso e variegato, così ricco che l’idea di afferrare qualunque cosa ti capiti vicino è semplicemente irresistibile; il futuro appare così pieno di possibilità, il passato le solide fondamenta su cui costruire una vita degna di essere vissuta, il presente una bollicina di champagne da assaporare fino in fondo.
Perché tu ed i tuoi genitori avete scelto proprio l’Italia come destinazione? La mia è una famiglia di artisti: mio padre è un graphic-designer mentre mia madre è pittrice, fumettista e stilista, ma anche insegnante. L’Italia significa musei, mostre e ricchezze culturali. Inoltre io amo l’arte e la musica suono il pianoforte al Conservatorio di Venezia; l’amore folle per la cultura e la sete implacabile di conoscenza non potevano portarci altrove.
Cosa ti rimane oggi e ti rimarrà della tua terra? Ho numerosi ricordi della mia infanzia, seppur più o meno sbiaditi. Si evocano però sensazioni vivide ritrovando un oggetto, una persona, un gesto, un odore, un colore che mi è rimasto impresso. Una sola amicizia importante, perché il senso di rivalità tra i compagni era troppo forte. Ho ancora conoscenti, la mia casa, le mie insegnanti, insomma tutti e tutto quello che faceva parte della nostra vita. Non mi lascio indietro praticamente nulla di così indispensabile, se non i miei nonni. In particolare ricordo, fra le altre cose, la loro abitazione, un attico al sesto piano di un palazzo in cui non c’è l’ascensore e dalla cui terrazza si vede un parco che dà sul mare. Quand’ero all’asilo quasi ogni pomeriggio dopo scuola andavamo in spiaggia a giocare con la sabbia.
Qualche stranezza “made in Italy” o curiosità sulla Cina? Quali differenze hai riscontrato conoscendo entrambe le realtà? In Cina, come nei paesi anglofoni, non si usa quasi mai il bidè e al suo posto usiamo la doccia. È diverso anche il comportamento a tavola: come posate si usano le ormai famosissime bacchette cinesi ed i piatti sono messi al centro. Poi, cosa molto buffa, ruttare non è un gesto rozzo e maleducatissimo come in Italia, anzi! In Thailandia è addirittura un complimento alla cuoca per la bontà del cibo. La scuola in Cina è infinitamente più rigida e gerarchica di quella italiana.
Come hai vissuto l’esperienza del partire e abbandonare tutte quelle che erano le tue certezze? Partire non è stato affatto doloroso, almeno per me. Per me non era abbandonare, per me era partire verso qualcosa di terribilmente affascinante. Ero piccola e quello era un nuovo inizio, qualcosa di assolutamente wow. Per i miei genitori invece molto meno: conducevamo una vita stabile e tranquilla, il loro lavoro era più che perfetto e gli toccava iniziare tutto daccapo: nuova lingua, cultura diversa, un’altra occupazione e abitudini differenti.
Nella città in cui vivevi qual è una festa particolarmente sentita, a parte quelle più conosciute? Sicuramente la festa d’autunno in cui si contempla la luna piena. Si sta su barche in piccoli gruppetti su uno specchio d’acqua, si mangiano granchi ed alcuni poeti compongono versi ispirati da questa atmosfera suggestiva. Si preparano delle tortine rotonde chiamate appunto “torte della luna”. Sono dorate e ripiene di una crema dolce di fagioli o con un tuorlo d’uovo. La loro forma circolare è simbolo di perfezione e sulla superficie sono scritti messaggi di speranza. In famiglia o con gli amici si prende una grande ciotola in genere di ceramica e a turno si lanciano sei dadi, affidandosi sulla fortuna. Esistono combinazioni di numeri fortunati come la “Fior d’oro”, che corrispondono a regali prestabiliti.
In un paese come quello italiano e in qualche modo abituato ad essere terra sia di arrivi che di partenze, può essere facile integrarsi o ci si imbatte comunque in ostacoli non indifferenti? Non lo nego i primi anni sono stati un incubo. Sono arrivata alla fine del giugno 2012 e ho passato l’estate da mio prozio. Poi a settembre due sfide impegnative: la quarta elementare (saltando la terza) e l’inserimento in una prestigiosa scuola di musica dove accettata, dopo quattro mesi di preparazione, con il voto massimo. Ho dovuto subire torti senza poter reagire, ho dovuto ingoiare il mio orgoglio in più di un’occasione. Ma dopo tutti questi sacrifici, seppur il mio carattere si sia indurito e la mia mente più disillusa, credo di poter dire che ho sfidato, ho combattuto e ne sono uscita trionfante.